«Capo, non è che stiam perdendo troppo tempo?» «Guarda che sei qui in America mica solo a leggere scartoffie, è più importante che tu conosca fino in fondo la nostra cultura». Personaggi ed interpreti non vi svelo, ma credetemi: la conversazione si ispira fedelmente ad una scena realmente accaduta. Ed è lo sparo d’avvio di una corsa che porta in giro tra shooting ranges, sedicenti gelaterie italiane, penitenziari abbandonati con tanto di cella di Al Capone, musei d’arte e collezioni di capolavori, miserrimi casinò con vista mare dove si barattano frustrazioni in cambio di effimero, palazzi di governo e spiagge assolate: finanche le spiagge – avete capito bene, a spasso col boss in calzoni corti e maniche di camicia. Offre la ditta, «non fare troppi complimenti».
Non trovo immagini più significative per inaugurare questo “di cosa parliamo quando parliamo di internship”. Se non questa: i senior partner dello studio son dei talenti nel farsi le fotocopie da soli. Dispongono di un aggeggio tecnologico con le funzioni di un’astronave e non hanno mai chiesto ad uno stagista di passare il pomeriggio a copiare gli atti di un processo per il giorno dopo. Bisognerebbe esportarla questa razza di avvocati con le scarpe inguardabili e sempre impolverate, le carriere costruite sulla sola ambizione, la sveglia puntata alle sei del mattino e l’infallibile fiuto per gli affari. Se c’é una cosa in cui gli Americani non li batte nessuno, quella è l’organizzazione. Hanno agende fitte di incastri da qui alle prossime stagioni, non ammettono il contrattempo: figurarsi l’imprevisto. E deve essere un istinto primordiale, un’attitudine che permea ogni santo giorno ed ogni dannata occupazione. Trasferite questa deformazione in campo giudiziario ed avrete contezza di un processo che fa di velocità ed efficienza i suoi punti di forza. Il giudice è seduto lassù, quasi confinato in un ruolo di manager e passacarte. Al di qua della trincea, invece, scalpita un esercito di avvocati incravattati, coi carrelli stipati di cartelle, i calzini di spugna spaiati e le camicie dai colori incerti. Son compagni di merende, giudici ed avvocati, competitivi e leali: si frequentano nelle dozzine di appuntamenti che le associazioni di categoria mettono in piedi, si fanno i complimenti per le montature nuove in ascensore e si augurano buona settimana al lunedì e, con spezzo della tautologia, buon venerdì al venerdì. Il fine è abbondantemente noto: fare network, allargare le maglie della lobby (non pensiate all’incrocio, all’approccio fieramente truffaldino e tutto mediterraneo).
Quanto alle carriere in campo penale, qui si marcia in ordine sparso. C’é un travaso continuo tra professioni; il pubblico ministero – che rappresenta lo Stato federale, il Commonwealth in Pennsylvania – fa il suo sporco mestiere per un po’, plausibilmente da giovane, poi decide che lo stipendio non gli basta e passa dall’altro lato della staccionata. Fa il private defender in un mondo in cui il ricorso frenetico ed abbondante alla litigation offre un mercato tecnicamente sterminato (ma non sempre garantito, non è affatto raro che un cliente decida di non pagare. Le scene in tribunale son teatrali, «Vostro onore, finiamola qua: non mi ha ancora pagato il signor Verdi» – sarebbe a dire i bigliettoni da cento dollari). Nessun imbarazzo dunque ad esser stato un prosecutor, ancora meno remore ad esser promossi giudici avendo in curriculum il ruolo del cattivo. L’intercambiabilità dei ruoli rende tutti più sereni, l’abitudine a respirare quest’aria di consapevolezza è il miglior antidoto alle posizioni strumentali. Vi do conto di questi appunti sparsi materia di diritti, senza sistematizzazione alcuna. È un paese, l’America, in cui si è rinunciato al carattere sacrale, si direbbe quasi intellettuale, della giustizia. Per quanto l’innesto del sistema vanti radici british, la divergenza da quella che fu madre patria non poteva essere più ampia. L’elezione diretta del giudice, che in Europa causerebbe il voltastomaco ai palati giuridici più sopraffini, è vissuta come una missione di merito e impegno. E le cose, in corte, filano lisce – esperienze soprannaturali in cui i cancellieri gestiscono con maestria tutto il pendente e si affannano per liquidare quanti più astanti possibile. Gli avvocati se la cavano, festeggiano in corridoio senza rinunciare alla goffaggine dello stereotipo che Matt Groening ha ritratto al meglio.
In una contea lontana dai grattacieli, sconfinata in un verde interrotto solo da fattorie ed autostrade, incontrereste questo giudice sbarbato e giovanissimo. Racconta della sua corsa pazza in un territorio fieramente repubblicano: lui che di politica ci capisce circa nulla bussa alle porte del comitato elettorale democratico. Non per simpatia, né per infatuazione, non ha alcuna tessera in tasca: è che i repubblicani avevano puntato tutto sul giudice uscente e mai avrebbero fatto posto a questo giovanotto, per quanto promettente. Anche i Democratici avevano il loro cavallo di razza da piazzare, ma si fidano di Mark e sfidano il proprio immobilismo. Mettono un piedi una sorta di casting tra iscritti e simpatizzanti: alla fine il nostro prevale, incassa la candidatura e parte per l’avventura. In salita, sia chiaro, quello – come detto – era un feudo repubblicano della prima ora e sfondare non pareva proprio una passeggiata. L’aspirante giudice, che vanta un brillante curriculum di studente prodigioso, decide di farsi conoscere: si licenzia dallo studio legale dove lavorava e comincia a bussare a tutte le porte della cittadina attraversando campi di vuoto e noia. Vince, infine, senza troppe difficoltà. Sintetizza tutta la sua fortuna in un aneddoto: Katrina, il terribile uragano che ha spazzato gli States minacciava allora la contea, lui se ne stava in giro vestito di una cerata gialla. Suona un campanello, gli aprono ma non lo fanno entrare: «Sei tu quello che si è candidato per il posto giudice? E te ne vai in giro sotto il diluvio? Non perdere tempo con me, il mio voto è tuo: se non hai paura di Katrina – e di tutte le Katrine che ti capiteranno nelle giornate più storte – questo mestiere fa proprio per te!».