E’ finita l’estate
E’ fuggita l’estate,
più nulla rimane.
Si sta bene al sole.
Eppur questo non basta.
Quel che poteva essere
una foglia dalle cinque punte
mi si è posata sulla mano.
Eppur questo non basta.
Ne’ il bene ne’ il male
sono passati invano,
tutto era chiaro e luminoso.
Eppur questo non basta.
La vita mi prendeva,
sotto l’ala mi proteggeva,
mi salvava, ero davvero fortunato.
Eppur questo non basta.
Non sono bruciate le foglie,
non si sono spezzati i rami…
Il giorno è terso come cristallo.
Eppur questo non basta.
Padre, figlio e spirito nostalgico. Nostalgia per un posto ultraterreno, irraggiungibile, di piena soddisfazione. Il cinema del grande regista russo Andrej Tarkovskij è colmo di questo sentimento e fortemente influenzato dalla poesia del padre, il poeta Arsenij Tarkovskij, sopravvissuto al figlio e morto a Mosca nel 1989. Questo speciale inno all’incompiutezza si trova nel film Stalker del 1979 (viene anche ripreso da Marco Bellocchio nel suo L’ora di religione del 2002) ed è forse il miglior manifesto di un’insoddisfazione strutturale, di una condizione – quella umana – di perenne non appagamento, dell’impossibilità di cullare e quietare la nostra quintessenza rivolta all’infinito coi nostri sensi terreni e finiti.
Stringendo: se sentite questa cosa che vi monta dentro, soprattutto in settembre quando l’estate sta finendo, tranquilli. Siamo programmati così. E se c’è un modo più incisivo di quello proposto dai Righeira nel 1985 per certificare l’impotenza dell’uomo dinanzi alle forze del cosmo, specie ove l’uomo sia il solito pinocchietto immaturo irresponsabile e irrimediabilmente incapace di crescere (ma solo di invecchiare), ancora ha da essere scovato. Certo, ci sono gli eterni alfieri del positive thinking, quelli alla Lorenzo il Magnifico incapaci di starsene coi Comuni in mano dinanzi alla fugacità della vita, ed è tutta colpa dei loro domani senza certezze se alla regione Lazio organizzano debosciate serate Satyricon senza ironia. Non che il cafonal adesso sia un reato, ma insomma quanto ci costa tutta questa furia di vivere vanità, il suo portato di energia bruciata, di risorse dissipate, di ansia da prostituzione; e l’ozio sarà il padre dei vizi, ma è l’azione che li partorisce, sennò resterebbero solo pensieri un po’ cattivelli, pecadillos in potenza. Per questo lo slancio ad agire va diluito nei tempi morti dell’esistenza. Starsene lì e riflettere, meditare poesie, abbandonarsi alla cecità indotta dai film di Tarkovsky o di Terence Malick o da una mela che rotola da qualche parte in Anatolia. Accogliere nel corso delle proprie ore coscienti le pause contemplative che la vita sa offire: per contrastare la fuga in avanti del tempo si può provare a fare così, anziché corrergli sempre dietro e non pensare.
A proposito di tempo il geniale eclettico scrittore e saggista inglese Geoff Dyer ha scritto un libro, Zona: A Book About a Film About a Journey to a Room (2012), dedicato proprio al film Stalker che è anche un esperimento letterario e cioè la descrizione scena per scena del suo film prediletto dove vien fuori che i tempi del regista russo sono troppo lunghi e duri per noi genti dei social network che non riusciamo a concentrarci su nulla che duri più di tre secondi. Sempre secondo Dyer presto nessuno sarà più in grado di guardare film come Ulysses’ Gaze di Theo Angelopoulos o leggere Henry James perché ci manca la giusta concentrazione per passare da una scena interminabile all’altra, da una frase interminabile all’altra. Questi tempi in cui eravamo in grado di farlo sono andati, come l’estate, non sapremo mai cosa ci siamo persi anche perché attenzione: quando pensiamo che in un film di Andrej Tarkovskij non stia accadendo nulla ci sbagliamo. Guardiamo meglio: l’immagine si contrae o si espande impercettibilmente come se la pellicola stesse respirando. Respiriamo.