Il mio intervento sul ruolo fondamentale che una formazione umanistica, e soprattutto storica, può svolgere nell’istruzione superiore del XXI secolo è stato di gran lunga il post più letto e condiviso del mio blog. Ciò è dovuto al fatto che il problema è particolarmente sentito, e che c’era il bisogno di una riflessione compiuta sull’argomento. Per questo, penso di fare cosa gradita alla maggioranza dei lettori suggerendo loro un contributo sullo stesso tema che secondo me offre spunti molto interessanti, mostrando in primo luogo come il problema della collocazione della formazione umanistica nell’orizzonte educativo avanzato non sia solo italiano.
L’intervento è apparso su Blue Skies, magazine online del think tank Pearson, gruppo di intellettuali e studiosi di area britannica da tempo attivo nella promozione di un dibattito sull’accesso universale a tutti i livelli di istruzione e sul ruolo fondamentale nello sviluppo di tale “infrastruttura immateriale” per il consolidamento della giustizia sociale e della democrazia di fatto nelle società sviluppate. L’autore è A.C. Grayling, filosofo e promotore di spicco, con la nascita del New College of Humanities, di un rilancio del ruolo strutturale delle liberal arts nel mondo della formazione superiore britannico, attraverso il proficuo contatto già a livello didattico con le scienze sociali a maggiore potenzialità applicative e con discipline scientifiche di più solida impostazione metodologica.
Il tema discusso da gruppo Pearson appare di grande attualità anche a livello generale in un paese come il nostro, in cui la definizione della politica universitaria sembra stretta tra due pulsioni opposte, ma entrambe al fondo profondamente conservatrici degli equilibri sottesi al godimento del servizio-cultura, e in cui le forze di sinistra faticano a trovare una rotta che coniughi i temi dell’eguaglianza dei cittadini e della giustizia sociale in termini diversi da quelli molto comodi ma ormai superati per l’Italia di una società in via di sviluppo, caratterizzata da barriere soprattuto economiche e non di cultura diffusa e di abitudini all’accesso i gradi più alti del sapere.
Più nello specifico, come dicevo, la questione considerata va a toccare un nervo scoperto nel rapporto tra formazione, occupazione di alto livello e crescita economica basata sulla conoscenza per tutto il mondo occidentale in transizione tra il benessere dello sviluppo industriale e le sfide del successivo, necessario mutamento di paradigmi sulla propria ragion d’essere nel mercato globale. Molte delle frizioni che stiamo vivendo in questo periodo, con l’Italia che per varie ragioni è nell’occhio del ciclone ma non fa certo eccezione, sono dovute in grande misura alla discrasia tra una formazione per lo più professionalizzante e specialistica, che ha ridotto anche il sapere umanistico a branca di formazione di gestori del sapere, e un mondo del lavoro sempre più dinamico, che richiede capacità di adattamento e propensione al cambiamento continuo delle proprie competenze e allo sviluppo di attitudini prima trascurate.
I paesi occidentali che riusciranno a sopravvivere alla competizione globale ritagliandosi un loro ruolo specifico, e non impelagandosi nella concorrenza senza speranza a produzioni manifatturiere di qualità medio-bassa con paesi che inevitabilmente, sul loro terreno d’elezione, riusciranno vincitori senza troppe difficoltà, saranno quelli che in una rinnovata promozione dell’alta cultura diffusa troveranno la chiave per rendere più naturale e meno traumatica l’imposizione di un modello di vita meno incentrato sulla successione temporale formazione-lavoro e più sull’istruzione continua e sulla compenetrazione dei due momenti fondamentali della vita attiva. Su una divisione netta di due momenti della vita concentrati quasi esclusivamente su una delle due attività si fonda ancora gran parte del modo italiano di leggere lo sviluppo professionale del nostro capitale umano, e tutti gli attori principali della vita produttiva, dai datori di lavoro ai sindacati maggiori, sembrano lottare per conservare il più possibile questo tipo di schema, per evitare ridiscussioni troppo profonde dei ritmi di vita, dei sistemi organizzativi di produzione, e finanche il loro ruolo di rappresentanza. Anche in questo modo può essere letto l’attaccamento morboso di tutti gli organismi di rappresentanza delle parti sociali a un mercato del lavoro lento e vischioso, in cui una volta incasellati in una filiera si avrà la garanzia di non uscire. Ma è in questo modo che, nei fatti, si sono prodotte le due generazioni di analfabeti di ritorno, incapaci di sviluppare competenze accessorie “di riserva” al di là di quanto strettamente richiesto dalla loro occupazione “a vita”. Ridiscutere tutto questo sarà il punto di partenza per giungere a una riforma sostanziale (che finora, nonostante gli ostacoli affrontati dal ministro per alcuni ritocchi non rimandabili, e checché ne dicano i sindacati, non è neppure allo studio) delle normative di base del mondo occupazionale italiano, riformando gli elementi di rigidità e di inamovibilità senza che le modifiche abbiano l’effetto di cancellare le tutele e i diritti di tutti.
Riporto per chiudere alcuni dei passi salienti dell’intervento di Grayling, che invito comunque a leggere per intero a questo link. Come diceva Roberto Vivarelli, l’inglese non è un dialetto tibetano, quindi credo che non ci siano problemi se non traduco, per questioni di tempo e soprattutto perché con un testo così elaborato rischierei di perdere molto nella traduzione.
There will always be a significant need for higher education to produce the technical and vocational experts whos presence is essential in advanced economies. Scientists, engineers, doctors and lawyers are indispensable, so universities will always train such professionals because there will always be the resources for training them. The necessary funding either comes from individuals themselves who are confident of the return on investment involved (as in the US), or by taxpayers who are similarly (if indirectly) confident, as is still the case in the UK for science, technology and medicine.
However, among both individuals and policymakers there is a curious blindness to the equally great need in our complex societies for generalists. Further, there is a related blindness to the need for educational generalism itself, as one of the richest possibilities for people to be more than just cogs in the economic machine. It should be the baldest truism to say that people are not merely units of resource on balance sheets, but alas that is exactly how they are being treated in the planning and financing of higher education in too many parts of the developed world. That is why it is necessary to remind ourselves, loudly and insistently, that people are also voters, neighbours, friends, lovers, parents, travellers, makers of choices, deciders about matters of human as well as economic significance. People have to be capable of understanding and engaging with a globalised, complicated world, to be equipped to overcome the human propensity for tribalism, limitation, and self-interested short-termism.
The generalism in question is provided by the humanities. […]
It takes little imagination to see how study of these pursuits can widen the horizon and deepen the insight of anyone who studies them attentively. They introduce perspectives, experiences, distillations of wisdom and observation, challenges, thought-provoking questions, new opinions, assumptions and outlooks, that must healthily influence any mind that contemplates them. […]
It is obvious enough that attentive study of these pursuits provides the materials for individual lives to be well-lived in themselves. This is no small matter. Fulfilled people with alert, outward-looking interests and understanding are always going to be a civilising influence in the world. But study of the humanities also – and this is an important point to raise with those for whom only economic considerations justify education – provides the basis for successful workplace careers. It does this because the humanities equip their students with two invaluable possessions: an overview of human affairs whose lessons and examples can be applied to new circumstances and in response to new challenges; and a capacity to think – really, genuinely think – which among many other things means an ability to handle and evaluate ideas and information, to solve problems, to apply the lessons of experience, to see new opportunities, to innovate, and to lead. […]
It has become a commonplace, but no less true for being one, to say that in a rapidly changing world one of the fundamental purposes of education has to be to render people fit to deal with unpredictable changes and challenges. This includes having to compete in a global economy. In all the identities people have, whether as individuals, as citizens (of the world as well as of a particular state), and as workers in whatever field, they more than ever need flexible, alert and well-informed minds, otherwise they will fall behind and end by playing a passive rather than active part in the tumultuous and noisy events that characterize our contemporary world. This is the opposite of what people would wish for themselves, or that we would wish for our fellows; so, given that education is the great resource for enabling people to be actors in their own lives rather than victims of life in general, we have to ensure that real education continues to be available. […]