Una figlia come teIncinta al pronto soccorso: disorganizzazione, scortesia e poca professionalità

Questo il testo integrale della lettera che ho inviato al Messaggero dopo la mia disavventura ai Pronto soccorso del San Sebastiano Martire di Frascati e San Camillo di Roma. Ringrazio il vicediret...

Questo il testo integrale della lettera che ho inviato al Messaggero dopo la mia disavventura ai Pronto soccorso del San Sebastiano Martire di Frascati e San Camillo di Roma. Ringrazio il vicedirettore Giancarlo Laurenzi per aver dato spazio e voce alla mia denuncia ed Elisa Isoardi e gli autori di Unomattina per avermi ospitata in trasmissione.

Insomma, ci siamo abituati a sopportare tanto. Ma tanto non è tutto.

Cara ex presidente Polverini,

mentre in Regione si discute delle sue dimissioni, delle colpe della Giunta o del Consiglio e lei annuncia, con dei manifesti, di aver ridotto il deficit della Sanità del Lazio, io le vorrei chiedere di ascoltare.

È la storia di una donna incinta qualunque, costretta, dopo un tamponamento, a peregrinare di notte tra due Pronto soccorso qualunque della Regione che lei amministrava, assistita da personale medico qualunque con più voglia di lamentarsi della propria condizione che di aiutare i pazienti.

Sono all’ottavo mese di gravidanza. È un sabato sera come tanti, sono in auto con mio marito, fermi davanti alle strisce pedonali, quando veniamo tamponati.

Chiamiamo l’ambulanza, io comincio ad accusare dolori addominali e alla schiena. Siamo a poche decine di metri dall’ospedale San Sebastiano Martire di Frascati ma il mezzo del 118 deve arrivare da Rocca Priora. Cioè da un altro comune.

Ci vogliono venti minuti, nonostante quei pochi metri, prima che possa entrare al Pronto Soccorso. Intanto i miei dolori sono aumentati ma vengo lasciata da sola su una sedia a rotelle, lungo un corridoio. Devo “aspettare”, mi dicono. Del resto, quel corridoio è pieno di pazienti sistemati su barelle di fortuna, sedie. C’è chi è addirittura in piedi. Una donna anziana si lamenta perché deve andare in bagno, un signore dice che sta per vomitare.

Passano altri dieci, venti, trenta minuti. I miei dolori durano ormai da un’ora ma nessuno mi ha visitato né fatto un’ecografia. Dovrò alzare la voce, sempre in quel corridoio, tra gente dolorante e qualcuno che chiede di poter andare via, per farmi ricevere da una dottoressa. La quale, dandomi le spalle da una malconcia scrivania, mi dice che quell’ospedale non ha un ginecologo, quindi mi dovranno trasferire. A Marino, cioè in un terzo comune. “Va con mezzi propri o con ambulanza? – sembra la sua unica preoccupazione – Perché l’ambulanza non so quanto le costa. Oppure la visito io: non so’ ginecologa, ma so’ brava lo stesso”.

Scelgo, senza ambulanza, di andare al Pronto soccorso ostetrico dell’ospedale San Camillo a Roma. Qui vengo monitorata per circa 20 minuti, sia per le contrazioni che per il battito cardiaco fetale. Finché la ginecologa di turno, scortese con me e con i suoi colleghi, mi dice che il battito del bambino non si sente più. In realtà, capirò poi, stava utilizzando non un doppler fetale ma un altro macchinario che, ovviamente, non dava alcun segnale. Per errore, per negligenza, per ignoranza. Non so dirlo.

Ma sono i minuti più lunghi della mia vita quando finalmente, a più di due ore dall’incidente d’auto, vengo visitata “d’urgenza” con un’ecografia.

Altri accertamenti, non un briciolo di umanità dal personale medico. Per me, che ancora tremo stesa sul lettino, solo frasi di circostanza del tipo “la medicina non è una scienza esatta”, oppure “i protocolli internazionali dicono che le devo proporre il ricovero”. Solo dopo, sulla cartella clinica che mi sarà consegnata, leggerò il referto dell’ecografo, che aveva fotografato il battito fetale. E deciderò di tornare a casa.

È notte fonda ormai. Sono stanca e spaventata. Nonostante l’emergenza ho dovuto aspettare ore per una visita e l’unico interesse dei medici che ho incontrato riguardava il prezzo di un’ambulanza a pagamento o una firma che li scaricasse da ogni responsabilità. Come se fosse tutto a prescindere dalla mia condizione fisica, dalle mie preoccupazioni, dal mio diritto – mi consenta la retorica – costituzionale alla salute.

Cara ex presidente Polverini, questa forse non è più la “sua” Regione, ma sono i cocci che trenta mesi di amministrazione hanno lasciato. Questo è il servizio sanitario che ogni giorno viene “offerto” ai cittadini qualunque, come me. Quelli che pagano le tasse e contribuiscono ai rimborsi elettorali, quelli che tra ristoranti e bar spendono al massimo poche decine di euro. Senza onori e senza laute indennità.

Eppure era proprio lei che diceva “Renata Polverini è con te”.

Beh, nella notte di disservizi che le ho raccontato lei non c’era. E chissà in quante altre.

Federica Ionta

La lettera pubblicata a pagina 45 del Messaggero del 27 settembre 2012

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