A mente freddaQueste benedette primarie: perché il centro-sinistra deve farle, e come

Man mano che il confronto interno al PD e al centro-sinistra per le primarie entra nel vivo, per un apparente paradosso, un numero sempre maggiore di osservatori simpatizzanti di area appare raffre...

Man mano che il confronto interno al PD e al centro-sinistra per le primarie entra nel vivo, per un apparente paradosso, un numero sempre maggiore di osservatori simpatizzanti di area appare raffreddare l’entusiasmo per questo strumento di scelta dei candidati e delle policies. “Le primarie non servirebbero se il partito tornasse a fare il partito“, si è detto anche su questa pagina, con malcelata nostalgia per un modello di partito che in Italia, specialmente a sinistra, si considera ancora “classico” e per questo quasi “unico”, ma che non è affatto IL funzionamento fisiologico delle forze politiche contrapposto ad altri funzionamenti “patologici” che, in quanto patologie, devono essere curate.

L’avevo già spiegato più o meno in un altro intervento, ma è bene riassumere di nuovo i concetti-cardine del ragionamento, come sempre in modo schematico:

  • L’età repubblicana classica, soprattutto nel mondo raccolto attorno ai partiti “storici” della sinistra, è stata caratterizzata dal successo elettorale e istituzionale di grandi partiti di integrazione di massa, che (per dirla con il post che ho linkato sopra) “sviluppavano […] un’organizzazione degna di questo nome, che coinvolgevano […] gli intellettuali, […] costituivano delle strutture di formazione dei quadri”, in poche parole univano in un agglomerato più o meno compatto, o per altri versi in un abbraccio indissolubile, i settori della società che erano in grado di mobilitare e gli organismi di produzione del personale politico e dei programmi che avrebbero dovuto rispondere, con le loro proposte, alle richieste che la società avanzava mobilitandosi.
  • Questo rapporto tra elettori e sistema politico, frutto in parte di uno sviluppo comune a tutta l’Europa continentale, ma da noi rimasto in piedi senza sostanziali sollecitazioni o autoriforme per parecchi decenni di stasi per varie ragioni che non è il caso di riprendere, rispondeva alle esigenze di partecipazione politica di una società in via di sviluppo sul piano culturale e dell’esercizio dei diritti. Un partito fonte quasi esclusiva (o comunque privilegiata) della “pedagogia” politica rappresentava un’importante esperienza di “alfabetizzazione” alla vita associata e ai rapporti con le istituzioni per una comunità giunta tardi alla modernizzazione, e per diversi decenni rimasta lontana da un rapporto democratico con la vita dello stato. Ma nonostante la staticità della forma-partito la società italiana, per fortuna progrediva, e l’implosione del sistema (al di là di tutti gli altri fattori che conosciamo bene e che tralascio) è avvenuta anche per l’inadeguatezza del partito d’integrazione a soddisfare le esigenze di una società più colta, più mobile, più informata, i cui componenti avevano scoperto necessità e desideri più complessi di quelli che a loro assegnava una proposta ideale monolitica.
  • In conclusione, la fine della forma-partito che tanti rimpiangono non è il frutto amaro di una catastrofe, ma uno sviluppo richiesto dagli eventi, ela restaurazione di un sistema di gestione del rapporto tra cittadini e politica finito perché ormai inadeguato non ci porterebbe da nessuna parte, se non altro perché conseguenza evidente di quanto ho detto prima è l’evidente “spartitizzazione” della partecipazione politica, con un calo dei militanti che Italia è non solo vistoso, ma destinato a continuare, se si guarda alle esperienze estere. L’alternativa, che altrove è già in gran parte operante e che è stato il risultato di una evoluzione più graduale, meno traumatica e quindi meno avvertita, è quella di un partito “aperto”, una struttura che sulla base di alcuni spunti ideali di massima irrinunciabili raccolga la partecipazione di forze e gruppi sociali più o meno organizzati: altrove, avevo definito questo modello di forza politica come una “macchina di selezione di uomini e di spunti programmatici in cui gruppi di interesse e orientamenti diversi confluiscono per competere in un’arena regolata e poi trovare gli elementi unificanti attraverso le primarie”.

Le primarie, appunto. Lungi dall’essere la panacea di tutti i mali, da quando hanno iniziato a trovare un utilizzo convinto a vari livelli si sono mostrate uno strumento adeguato per selezionare candidati a volte di buona qualità nonostante una posizione politica un po’ defilata, spesso vincenti, quasi sempre capaci di raccogliere un consenso maggiore delle liste che rappresentavano, e di consolidare un rapporto tra elettori e candidati su canali alternativi, che ha rappresentato una scossa e un bagno di umiltà per quadri dirigenti che erano rimasti uno o più passi indietro, convinti di avere a che fare con un paese e una cultura politica che non esistono più, e che ancora non si dimostrano degni delle persone e delle idee che dovrebbero rappresentare. Lasciar perdere questo patrimonio, che più di ogni altro ha marcato in modo attivo e positivo la differenza con l’autocrazia “sultanale” della controparte, trasformando la pluralità di voci del centrosinistra da ostacolo a possibile elemento di vantaggio in vista di una linea di sintesi dettata dai risultati di una votazione inclusiva, sarebbe da irresponsabili.

Detto questo, però, restano ancora sul tappeto diversi elementi, in particolare le ormai note “regole”, che a detta di qualcuno si mantengono flessibili apposta per poterle tirare, quando opportuno, dove si vuole. Un intervento di Giuliano Gioberti sul sito dell’Istituto di Politica raccoglie abbastanza bene le idee sul tema, specie quando dice:

Sulle primarie come strumento non solo di partecipazione popolare, ma anche e soprattutto di selezione interna dei gruppi dirigenti e dei candidati, a tutti i livelli, il Pd ha scommesso ormai da anni, diversamente da ciò che ha fatto il centrodestra, che ha invece scelto di fare affidamento sul carisma – ritenuto inossidabile – di Silvio Berlusconi per vincere al centro e su più tradizionali criteri di selezione del proprio personale politico a livello territoriale. Nel corso del tempo, nelle diverse occasioni in cui questo strumento è stato utilizzato, al centro come in periferia, si è però visto che esso presentava non pochi aspetti controversi e problematici, che avrebbero dovuto suggerire la messa a punto di procedure e meccanismi vincolanti e validi una volta per tutte, in grado di evitare intoppi, imbrogli e distorsioni.

Dall’esperienza di questi anni sembra invece che i criteri di svolgimento delle primarie siano destinati a cambiare ad ogni appuntamento ovvero debbano essere considerati talmente vaghi e incerti da rendere possibile, al dunque, anche effetti politicamente discorsivi o indesiderati. Chiedersi, come sta oggi accadendo, se le primarie debbano essere di partito o di coalizione (quando peraltro una coalizione chiara ancora nemmeno esiste), è un chiaro segno di confusione e incertezza, visto che le primarie – per definizione e come accade ovunque nel mondo – non possono essere che un affare interno al partito che le promuove. Così come appare incomprensibile la discussione, che ogni volta si innesca nel Pd, su chi possano o debbano essere i votanti: se i soli iscritti, se anche i simpatizzanti (purché si impegnino a sottoscrivere una dichiarazione di voto o di sostegno al partito) o magari chiunque, documento alla mano, si presenti al seggio. Non sarebbe il caso di decidere una volta per tutte su tali questioni, sulla base di norme che siano al tempo stesso trasparenti e inderogabili?

Stupisce dunque che, a circa due mesi dalle primarie che sulla carta dovrebbero decidere il candidato del Pd alla guida del Paese, ancora non si sappia quale sarà l’effettiva base elettorale alla quale i contendenti potranno rivolgersi e, ancora peggio, quali saranno i criteri e le modalità con cui verrà espresso il voto e sarà determinato il vincitore. Il che autorizza, evidentemente, i cattivi pensieri. La discussione in corso su cosa sia preferibile – se il turno unico o il doppio turno: nel primo caso vince il più votato, nel secondo vanno al ballottaggio i due che hanno ottenuto più consensi – non nasconde forse la tentazione, da parte dell’attuale gruppo dirigente, di trovare l’inghippo tecnico per rendere se non più facile la vittoria di Bersani certamente più difficile la rincorsa di Renzi? Un partito che ha scelto di utilizzare le primarie in modo ricorrente – e che si vanta di questo con gli avversari – certe cose non dovrebbe stabilirle per tempo e in modo incontrovertibile?

Proviamo ad argomentare in modo più analitico.

In primo luogo, a stretto rigore di termini queste primarie non dovrebbero nemmeno fare, perché per statuto il PD sostiene il proprio segretario come candidato alla presidenza del Consiglio. Per questo erano impropriamente dette “primarie” quelle vinte da Veltroni nel 2007 (primarie anche di fatto perché le elezioni poltiche sarebbero sopraggiunte poco dopo) e quelle del 2009. Però, è ormai riconosciuto da tutti che una nuova consultazione non si possa non fare: lo scenario è cambiato troppo in meno di tre anni, e nuovi uomini con nuove proposte si sono affacciati con una forza che, di fronte a una esclusione coatta dalla competizione, potrebbero ragionevolmente gridare all’ingiustizia. E a mio parere anche la regola suddetta che identifica segretario del partito e candidato premier cozza con l’idea di partito “aperto” che ho esposto sopra e che il PD ha pienamente sposato quando per nascita ha accolto anime e soggetti ideali così profondamente diversi (anche se qualche membro del partito sembra non esserne accorto). Inoltre, il compito di un partito che funge da “arena regolata” riguardano soprattutto la definizione delle regole, l’ammissione dei contendenti, il minimo denominatore comune che li contraddistingue, l’allargamento a soggetti esterni della partecipazione, la definizione di collaborazioni con altre forze, il rispetto dei risultati della competizione. A questo, del resto, si dedica l’organizzazione a cui partecipano i militanti, i quali è giusto abbiano piena voce in capitolo per l’elezione dei loro vertici amministrativi e politici. I candidati possono essere, e spesso sono, esterni a questa “prima cerchia”, per diverse ragioni, e anzi si direbbe proprio che sia il loro posizionamento esterno o marginale il valore aggiunto per vincere, qui in Italia come in altri paesi che adottano lo strumento delle primarie in partito “aperto” da un tempo ben più lungo.

Per il resto, i due problemi che molti pongono in questo periodo sono di assoluto rilievo e colgono questioni centrali:

  • il limite dell’apertura delle consultazioni è centrale, e occorre trovare una soluzione precisa e definitiva;
  • un risultato eccessivamente frammentato produrrebbe un candidato delegittimato fin dall’inizio, quindi occorre trovare sistemi che garantiscano l’approvazione del vincitore dalla maggioranza assoluta dei partecipanti.

Sulla prima questione, pesa per l’Italia il fatto che finora le primarie si siano svolte sostanzialmente da una parte sola: gli elettori di destra, hanno avuto finora la possibilità di partecipare alla scelta del candidato avversario, e non hanno garantito questa possibilità agli elettori di sinistra. Negli USA il limite di accesso alle pratiche di selezione interne al partito è deciso dai partiti dei singoli stati (solitamente in regime di reciprocità) sulla base della situazione specifica, ed è agevolata dal fatto che le primarie, dopo una storia travagliata che nei suoi primi passi sembra ricalcata anche dalle nostre, sono divenute di fatto un elemento “istituzionalizzato” (anche se non universalmente adottato), agevolato nella sua organizzazione dalle modalità di registrazione degli elettori in ogni stato. Almeno provvisoriamente, un albo dei potenziali partecipanti alle primarie, che rendesse necessaria una presa di posizione pubblica, sarebbe stata una soluzione praticabile nel nostro caso.

D’altro canto, il legame diretto o indiretto delle “pseudo-primarie” per le elezioni del segretario del PD a un’assemblea costituente o congressuale che avrebbe ratificato la nomina aggirava il secondo ostacolo, perché anche una maggioranza relativa in termini di voti si sarebbe agevolmente trasformata in maggioranza assoluta di seggi, sul modello della nomination indiretta effettuata nelle convention americane. Non volendo complicare oltremisura le procedure, un voto a doppio turno sarebbe stata un’idea interessante: personalmente, io propenderei per il voto alternativo, che avrebbe il piccolo svantaggio di impedire il processo di apprendimento per la “caccia ai voti” persi al secondo turno, ma presenterebbe il grande vantaggio di ottenere una maggioranza assoluta a turno unico, rendendo meno complessa e meno costosa la procedura, e soprattutto evitando l’ostacolo della grande volatilità del voto delle primarie che impedirebbe di fatto una riproposizione di due corpi elettorali quantomeno simili nei due turni.

Ma perché sarebbero state soluzioni buone, al passato? Perché era necessario pensarsi prima. Non si può intervenire sulle regole ora che il parco dei candidati principali è chiaro, sono state esplicitate posizioni e strategie, e che soprattutto il vertice dell’organismo che controlla le procedure si è completamente calato nei panni di parte in lizza nella competizione. Un intervento sulle regole fatto adesso, magari con tutta la buona fede del mondo, delegittimerebbe l’intera votazione assai più della partecipazione di qualche gruppo organizzato di pidiellini urlanti o di un’affermazione del vincitore al 42%.

Di conseguenza, ormai l’unica scelta praticabile è quella di effettuare una consultazione basata sulle regole dell’unico precedente effettivamente individuabile, quello delle primarie di coalizione del 2005. Ed è anche il caso di chiedersi di chi è la colpa se siamo arrivati a questo punto. Il partito ha un segretario politico, ma anche una presidenza che dovrebbe occuparsi a tempo pieno delle questioni amministrative e della gestione effettiva della struttura-partito. Da quelle parti, a nessuno è venuto in mente che le primarie, la proposta di partecipazione di gran lunga di maggior successo negli ultimi anni a sinistra, meritasse una particolare attenzione per presentarsi adeguatamente raffinata nel momento decisivo? L’idea che traspare da come è stata gestita la questione, centrale per la forma che il PD intende darsi, è che i vertici del partito abbiano sempre pensato che le elezioni primarie sarebbero sempre rimaste un puro strumento di legittimazione popolare per candidati scelti altrove, e che quindi non avrebbero mai avuto una funzione reale nella vita dell’organizzazione, al di là della pubblicità rituale che avrebbe accompagnato, senza alcuna sostanza dietro, il prodotto più riuscito. I fatti li stanno smentendo, probabilmente non per l’ultima volta.

Entra nel club, sostieni Linkiesta!

X

Linkiesta senza pubblicità, 25 euro/anno invece di 60 euro.

Iscriviti a Linkiesta Club