In un mio intervento di un paio di mesi fa avevo espresso le mie perplessità sulle modalità seguite per la revisione della spesa nel mondo universitario. Mi ero in particolare soffermato sui possibili danni di un atteggiamento puramente “contabile”, in cui il raggiungimento di certi livelli di spesa era più importante della determinazione della qualità dell’investimento. Tale orientamento, infatti, rischiava seriamente di colpire i centri di studio e ricerca più efficienti solo perché meno “protetti” da pressioni corporative e di minori dimensioni, attribuendo le loro funzioni ai grandi “carrozzoni” con migliaia di amministrativi, ovvero proprio i luoghi dove più facilmente potevano annidarsi e prosperare le sacche di spreco e di inefficienza.
Già allora ero rimasto stupito del fatto che si fossero sentiti in dovere di rispondere all’ultima ruota del carro ben tre professori ordinari per giustificare le scelte che il ministero aveva anticipato: era il segno che si trattava effettivamente di provvedimenti controversi, che le critiche ad essi non erano infondate al punto di meritare risposte dettagliate.
Ora che i provvedimenti di spending review si fanno più chiari, dubbi e perplessità sorgono da voci ben più autorevoli e soprattutto ben più influenti della mia. Oggi sul Sole 24 Ore i direttori di Sant’Anna e SISSA, due delle nostre scuole a statuto speciale (per intenderci, quelle che nel corso del tempo si sono costituite sul modello della Normale di Pisa e che, con poche migliaia di addetti alla ricerca, producono quasi la metà dell’impatto scientifico internazionale della ricerca fatta in Italia, rappresentando il nostro settore di punta anche per la mobilità internazionale di studenti avanzati e studiosi) sono intervenuti facendo propri alcuni concetti che anch’io avevo espresso facendo riferimento ad altri centri studi di elevata qualità. Maria Chiara Carrozza e Guido Martinelli si sono trovati a doversi opporre a tagli di spesa che, secondo me ragionevolmente, ritengono ingiustificati, essenzialmente perché alla guida di istituzioni dotate di un piccolo numero di dipendenti e quindi di minor “peso specifico” nei conflitti e nelle contrapposizioni di varia natura che accompagnano la ridefinizione delle risorse, e hanno risposto con parole che trovo condivisibili:
Viene naturalmente da chiedersi come mai proprio le istituzioni che godono di maggior prestigio internazionale, che attirano i migliori ricercatori e docenti dall’Italia e dall’estero, i cui studenti, selezionati e formati con particolare rigore trovano posto nei migliori istituti di ricerca di tutto il mondo, siano considerate sconsideratamente “spendaccione” e meritevoli pertanto di un drastico taglio dei fondi del Ministero, anzi di tagli maggiori della media delle università e enti di ricerca. […] ci deve essere una razionalità nei tagli altrimenti si rischia di distruggere quel patrimonio immateriale di competenze scientifiche e tecnologiche essenziale proprio a rilanciare l’economia italiana. Non è un caso che la Germania, mentre tagliava il bilancio pubblico, aumentava gli investimenti in istruzione e ricerca, con i risultati che ognuno può verificare, per non parlare di altri paesi come la Corea del Sud, la Cina, o l’India. Ci ha colpito una frase del Presidente dell’Infn, professor Fernando Ferroni, che facciamo nostra: basta un decreto per distruggere un ente (scuola accademica, università) di eccellenza, ma potrebbero essere necessarie molte generazioni, e aggiungiamo non è sicuro che ci si riesca, per recuperare l’eccellenza perduta. Quindi non possiamo non lanciare un appello in difesa degli enti e università minacciati da tagli decisi con criteri incomprensibili e metodi di valutazione errati che nessun Paese a economia sviluppata, e con una solida tradizione scientifica e tecnologica, mai applicherebbe.
Non è del resto la prima volta, negli ultimi mesi, che da questi ambienti provengono perplessità e vere e proprie proteste nei confronti di provvedimenti ministeriali spesso ammantati della retorica del “merito” e dell'”eccellenza” che negli ultimi anni è servita per giustificare senza alcun motivo qualunque intervento, soprattutto quelli che gli addetti ai lavori riconoscevano come intrinsecamente dannosi, semplicemente perché ci si è ben guardati dal definire i concetti. Particolarmente significativo, secondo me è stato l’intervento che la Carrozza aveva firmato insieme al direttore della Scuola Normale, Fabio Beltram, il 3 gennaio 2012, per commentare l’idea dell’allora neo-ministro dell’Università Profumo di obbligare gli atenei a una preselezione per i progetti di ricerca di rilevanza nazionale da presentare alla valutazione finale, in pratica distribuendo a ogni università un numero di progetti precostituito, legato esclusivamente al numero dei suoi dipendenti, e impedendo nei fatti che un ateneo in grado di presentare un numero più elevato di progetti di buona qualità ricevesse più approvazioni, e quindi più soldi, rispetto a centri di ricerca più scadenti.
Il tono della polemica era decisamente civile, visto che nella sostanza ci si limitava a ricordare l’ovvia affermazione (ben nota ai due massimi dirigenti dei nostri centri di eccellenza più prestigiosi) che “non tutti i luoghi sono uguali per svolgere una certa ricerca, e la distibuzione delle ‘buone idee’ non è un fatto statistico che prescinde dalla qualità delle strutture e delle persone”. In realtà il problema era ben più complesso, perché rappresentava l’opposizione al criterio per cui i fondi di ricerca straordinari dovessero contribuire al fabbisogno ordinario di insegnanti precari e di spese di cancelleria e dei settori tecnici di tutte le università, e che quindi ad essi dovessero avere accesso tutti gli atenei, anche se inadeguati a svolgere attività di ricerca di qualità. Al fondo della questione, insomma, restavano gli annosi problemi del controllo amministrativo della distribuzione dei fondi ricerca e della mancata differenziazione delle finalità dei diversi atenei, che da decenni rappresentano punti deboli nell’organizzazione dei nostri studi superiori, e che sono in queste condizioni per precise volontà di carattere politico e per il mantenimento di precisi equilibri tra centro e periferia. Che la consapevolezza della necessità di rivedere questi ambiti si faccia strada anche tra personalità della caratura dei direttori delle nostre scuole d’eccellenza non può che farmi piacere, anche se temo che una soluzione accettabile alle questioni messe (per ora così timidamente) sul tappeto sia ancora assai lontana.