La task force istituita dal ministro Passera ha appena pubblicato “Restart”, una serie di proposte per facilitare la nascita e lo sviluppo di start-up in Italia. Ho letto il rapporto con un misto di speranza e frustrazione.
L’ambizione e la competenza degli autori sono evidenti, anche dalla lunghezza del rapporto – 176 pagine, talvolta un po’ prolisse e coi toni del tema in classe, ma esaustive e dettagliate. (Per facilitare la divulgazione, suggerisco caldamente un executive summary incisivo di 2-3 di pagine.) Apprezzo in particolare le proposte volte a ridurre gli oneri burocratici per i neo-imprenditori, tra cui: istituzione della società in forma semplificata e senza capitale minimo, contabilità semplificata, flessibilità nelle operazioni di capitale e nei rapporti tra i soci, flessibilità nella remunerazione del personale, minori vincoli al lancio di SGR che investano nel settore, semplificazione del regime fallimentare.
Non mi piace invece l’ipotesi che lo Stato debba fare politica industriale attiva a favore delle start-up. Il termine non è mai usato, ma gli indizi sono purtroppo frequenti.
Innanzitutto, le proposte sono finalizzate esclusivamente alla nuove imprese a contenuto tecnologico. E’ una limitazione che trovo assurda. L’economia italiana è stagnante da dieci anni. Credo che a questo punto, pragmaticamente, tutto faccia brodo. Se una pizzeria genera fatturato, posti di lavoro e introiti per il fisco, ben venga, ed è giusto che l’imprenditore-pizzaiolo giovi degli stessi sgravi burocratici di una web company.
Inoltre, per citare una serie di esempi specifici: le start-up avranno obblighi informativi molto dettagliati; lo Stato istituirà un fondo di fondi per facilitare la raccolta da parte dei venture capital, un fondo per gli investimenti seed, un fondo di garanzia per il debito delle start-up (e qualche altro fondo mi dev’essere sfuggito tra le righe); lo Stato faciliterà la cessione di start-up ad aziende industriali; lo Stato faciliterà la quotazione in borsa e la liquidità dei titoli; lo Stato creerà consapevolezza delle start-up nelle università e fuori. E così via.
Ipotizzando che queste proposte si traducano in norme di legge (ipotesi forte), chi si prenderà la briga di studiare i cavilli magari ne trarrà qualche vantaggio specifico. Ma, a lungo andare, non sarebbe meglio smetterla con l’utopia dello Stato-imprenditore e dello Stato-mamma? I capitali messi a disposizione saranno comunque molto limitati, vista la penosa situazione del bilancio italiano. Ed è illusorio pensare che l’intervento dello Stato possa sostituire i decenni di ricerca, innovazione e cultura imprenditoriale della Silicon Valley.
Se vogliamo veramente ottenere un risultato di peso, ridenominiamo la task force per le start-up “task force per l’imprenditoria”, senza tante distinzioni. Anziché creare l’ennesima normativa ad hoc, semplifichiamo le regole per tutti. Riduciamo drasticamente l’ambito d’intervento dello Stato nell’economia, tagliamo la burocrazia (anche nel personale) e lasciamo che l’iniziativa privata produca i propri frutti.
Le probabili consequenze? Chi ha un prodotto rivoluzionario e si sa vendere, i fondi li troverà comunque (magari all’estero). Se la start-up produce risultati, un acquirente lo troverà, o sarà quotata con successo. L’imprenditore che vuole assumere il personale migliore troverà un modo per “creare consapevolezza”. Lo studente che deve scegliere che facoltà seguire sarà comunque costretto a farsi un’idea dei nuovi trend. Mentre chi si nasconde dietro la scusa dello “Stato che non fa niente per me”, perderà il treno, e senza grandi danni per la società in senso lato.
(Trovate il rapporto al seguente link: http://www.sviluppoeconomico.gov.it/images/stories/documenti/rapporto-startup-2012.pdf)