Gli Stati Uniti d’America sono oggi un paese profondante trasformato da una silenziosa “rivoluzione energetica”, che sotto il nome di shale gas ha permesso una maggiore sicurezza di approvvigionamento e un basso costo delle risorse. Riconosciuta questa storica trasformazione, la stampa internazionale ha concentrato la sua attenzione sui necessari requisiti ambientali e la conseguente accettabilità pubblica dello shale gas. Lontano dai riflettori invece, una motivazione tutta economica (e nazionalista) potrebbe mettere in discussione la tanto attesa creazione di un mercato mondiale del gas naturale, fin ad oggi creduta spontanea conseguenza degli ingenti volumi di energia non-convenzionale.
Il contesto di crisi economica globale si è presentato come l’opportuno punto di svolta nella fortuna accademica e politica delle teorie liberiste e dei loro corollari di libero mercato. In risposta alla crisi, le strategie economiche di Europa e Stati Uniti hanno mostrato una divergenza inaspettata, e talvolta una “inversione dei pensieri”. Mentre l’America ha intrapreso la via delle nazionalizzazioni (di banche e di intere industrie, come quella dell’auto), in Europa ha prevalso la morigeratezza dei costi e una severa disciplina fiscale. Mentre l’America si è mostrata iper-attiva nei programmi di politica monetaria (tra Quantitative Easing e iniezioni dirette di liquidità), in Europa si è preferito credere che l’austerità non solo non fosse causa di stagnazione, bensì fosse il primo fattore a ricreare confidenza nei mercati e (in ultima istanza) crescita economica.
Ebbene, un ulteriore esempio di questa tentazione di rinnegare il liberismo economico viene oggi dal mondo dell’energia. Nell’imminente futuro, gli Stati Uniti si troveranno di fronte allo strano dilemma tra una crescita sostenuta da bassi costi energetici, e il voler rispettare i sani principi di J. Stuart Mill e colleghi, finora considerati artefici di un modello di sviluppo funzionante da almeno 200 anni.
Alla base della moderna teoria economica infatti, tre sono i fattori componenti la così detta “funzione di produzione”. Esattamente: lavoro, capitale ed energia. Ognuno di questi tre input di sistema è in grado di creare vantaggi competitivi, generare crescita economica, o al contrario di limitare lo sviluppo di un paese.
Nel caso degli Stati Uniti, evidente è stato il beneficio nella ripresa economica generato dall’accesso a risorse di produzione a basso costo, prodotti energetici non-convenzionali quali il tight-oil e il gas shale.
L’utilizzo su larga scala di quest’ultimo è un fenomeno relativamente recente, a partire dalla metà degli anni duemila. Benché fosse un’energia ben nota da tempo (con le prime produzioni di oltre un secolo fa), il suo utilizzo fu ritenuto non economico a causa del costoso processo estrattivo (necessitante di tecniche di trivellazione orizzontale), dei dovuti studi di analisi geologica e di un maggior numero di punti di estrazione. Come suggerisce un recente paper di A. Boudiaf e Y. Yegorov (link), sono stati infatti il progresso tecnologico e uno scenario mondiale con alti prezzi energetici sostenuti nel lungo periodo, ad aver permesso questa “rivoluzione”.
In numeri, se all’inizio del nuovo millennio la quota di gas shale sul totale di gas naturale prodotto non superava il 2%, oggi almeno il 40% del gas naturale prodotto in America è di questa tipologia. Una quota destinata ulteriormente ad aumentare, fino a raggiungere il 50% entro il 2035 e a rendere autosufficiente il paese già entro il 2020, secondo quanto dichiarato dall’agenzia statistica del Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti (nota come EIA). In termini di beneficio economico, oltre un milione di nuovi posti di lavoro, di cui 150.000 direttamente nell’industria, sono oggi il prodotto di questa rivoluzione, secondo il report ‘IHS Global Insight’ del 2011. E si stima che tutto ciò possa contribuire al prodotto interno lordo nazionale per una cifra di oltre 75 miliardi di dollari nel 2012, 120 miliardi entro il 2015, e fino a 230 miliardi di dollari entro il 2035.
Il secondo aspetto della “rivoluzione energetica” americana riguarda l’approvvigionamento di greggio. Grazie allo sviluppo di tecniche non-convenzionali (tra cui il tight oil, estratto da dense formazioni rocciose), si è già verificata una crescita estrattiva di oltre il 25% nel solo ultimo mandato presidenziale, e alta è l’attesa dei nuovi volumi di produzione attorno alla costa dell’Alaska. Inoltre, se si considera la riduzione dei consumi energetici in atto, per motivi sia economici che di efficienza energetica, le importazioni di petrolio sono oggi il 42% dei consumi, contro oltre il 60% del 2005.
Per completezza di analisi inoltre, è doveroso ricordare che l’attuale scenario energetico globale mostra oggi incertezza e volatilità nei prezzi. Mentre le nuove produzioni hanno posto gli Stati Uniti d’America in una posizione di relativa tranquillità, il resto del mondo si trova a gestire i rischi di instabilità politica ed economica in Medio Oriente e in Africa, in particolare dopo i recenti sviluppi di crisi in Iran, Libia e Siria.
A rendere ancora più complessa la situazione, sono tre i fenomeni portatori di nuova incertezza nei mercati energetici (in particolare in un’ottica di lungo periodo). Primo, l’accesso a “riserve tradizionali” di greggio è da anni o in constante declino o in termini di costo sempre meno vantaggiosi. Secondo, questo trend nell’offerta sembra ulteriormente aggravato dai tentativi di nazionalizzazione delle risorse in atto in varie parti del mondo (ad esempio in Argentina).
Terzo, l’Arabia Saudita e il gruppo dei paesi del Golfo Persico sembrano oggi non avere più la capacità di incrementare con flessibilità e rapidità i loro output di greggio, in modo da porre rimedio ad eventuali rischi di shock petrolifero.
Un’inedita polarizzazione dei prezzi dell’energia tra gli Stati Uniti e l’Europa o il Giappone è pertanto il fenomeno in atto. Se si considera l’intervallo di tempo dal 2005 a oggi, il prezzo del gas naturale sul mercato americano ha mostrato una constante diminuzione (con la sola eccezione della stagione degli uragani nell’estate del 2008): dal picco di 15.2 dollari per MMBtU ai circa 3 dollari di oggi. Al contrario, in Giappone e nei maggiori paesi europei, usando come riferimento i prezzi per il gas naturale liquefatto (LNG), in assenza di un vero mercato, il prezzo si è attestato ad essere circa 5 volte più alto di quello degli Stati Uniti.
Volgendo infine la nostra attenzione alla teoria economica, il prezzo delle risorse potrà rimanere regionalmente-isolato soltanto se la mobilità di queste sarà difficoltosa, a causa di prezzi ingenti o di un’impossibilità fisica di transferimento (per esempio, per mancanza di navi trasportatrici di gas liquefatto).
Questo enorme differenziale però è in teoria già capace di creare rivoluzionarie possibilità di arbitraggio, visto che persino al netto degli alti costi di trasporto sarebbe oggi conviente l’acquisizione di gas dagli Stati Uniti. Le maggiori compagnie energetiche stanno infatti decidendo importanti investimenti per trasformare l’America in un esportatore mondiale di gas naturale e un primo nuovo hub mondiale, gestito da Chenerie Energy, è previsto entrare in funzione dal 2015 in Louisiana.
L’unico tassello che manca però in questo scenario, è l’azione e la strategia che gli Stati Uniti vorranno adottare. Un governo può infatti fare molto per decidere la fortuna di una fonte di energia. Le infrastrutture sia di lavorazione che di trasporto, il sistema legale, la struttura burocratica, la politica di aiuto alla ricerca (in grado di sostenere la competitività di prezzo dell’intera industria, grazie al progresso tecnologico), gli incentivi o disincentivi fiscali sono tutti mezzi attraverso cui gli Stati Uniti potranno sostenere o meno questo trend di atteso arbitraggio, con il rischio di eliminare i fondamenti di questo attuale vantaggio energetico. Chiaro esempio è l’Argentina, dove il piano di sviluppo dell’attuale governo ha avuto l’effetto di limitare e posporre il potenziale sviluppo dell’estrazione di shale gas, nonostante il paese sia oggi il primo al mondo in termini di riserve pro capite.
Il governo degli Stati Uniti potrebbe quindi trovare interesse nel rinnegare la logica di liberismo economico, impedendo così la liberalizzazione dei mercati globali e mantenendo per un periodo più lungo un basso costo dell’energia, indubbio vantaggio economico rispetto ai partner di oltre oceano.
Questo strategia economica è comunque ben nota nella moderna storia dell’Energia. La stessa Russia di Vladimir Putin ha mantenuto in questi anni i prezzi domestici lontani da quelli che si determinerebbero in una normale logica internazionale di mercato, se mai questo mercato esistesse. Mentre l’Europa continua quindi a pagare tariffe di quasi-monopolio per i suoi approvvigionamenti, il basso prezzo del gas in Russia è oggi uno dei motori per la crescita del settore manifatturiero post-sovietico, e un sussidio reale alla spesa per il riscaldamento che la popolazione del paese deve sostenere.
Se per mezzo di incentivi fiscali, atti legislativi o di investimenti in infrastrutture, gli Stati Uniti prendessero la decisione di mantenere i prezzi nazionali dell’energia ad un livello inspiegabilmente inferiore a quanto un mercato globale imporrebbe, resterà semplicemente da chiedersi dove sia la differenza con la Russia di Putin.