Zhongnanhai e dintorniTra Cina e Giappone a pesare è anche la storia

“Quello che il Giappone ha fatto mostra che intende negare i risultati della prima guerra mondiale anti-fascista e costituisce una grave sfida all'ordine internazionale uscito dal dopoguerra”: un e...

Quello che il Giappone ha fatto mostra che intende negare i risultati della prima guerra mondiale anti-fascista e costituisce una grave sfida all’ordine internazionale uscito dal dopoguerra”: un editoriale di Wu Liming, apparso l’11 settembre su Xinhua, ha così commentato la decisione del governo giapponese del 10 settembre scorso di procedere all’acquisto di tre delle cinque principali isole Senkaku (Diaoyu per i cinesi).

Come esempio di comportamento viene citata la Germania che, dopo la caduta del Muro di Berlino, non manifestò alcun sentimento di rivincita e riconobbe le frontiere uscite dalla sconfitta nazista. Eccolo il peso della storia: Pechino non dimentica le aggressioni subite nel 1931 e dal 1937 al 1945 da parte dell’Impero del Sol Levante. Ancora rimprovera alle autorità giapponesi – nonostante quest’anno corra il 40° anniversario della normalizzazione delle relazioni diplomatiche – l’annuale visita al santuario di Yasukuni dove sono sepolti anche militari accusati di crimini contro l’umanità durante l’occupazione della Cina (l’ultima proprio durante lo scoppio dell’attuale crisi), come pure l’ospitalità concessa, soprattutti da gruppi della destra nipponica, ai rappresentanti di movimenti separatisti Uighuri.

Per Pechino la questione legata alla sovranità delle isole situate a nord-ovest di Taiwan richiama un secolo di umiliazioni e concessioni subite con la forza delle armi. Nello stesso articolo possiamo, infatti, leggere: “Sono ormai lontani i giorni in cui la nazione cinese è stata oggetto di bullismo e umiliazione da parte degli altri. La questione della sovranità sulle Isole Diaoyu riguarda l’integrità territoriale e la dignità nazionale, non c’è spazio per fare una concessione”. Ad essere toccato sul vivo è il senso di dignità e un radicato spirito patriottico che va oltre la stessa Cina popolare per coinvolgere anche l’opinione pubblica e il governo di Taiwan e quella, non sempre allineata, della regione speciale di Hong Kong. Manifestazioni popolari di protesta contro la decisione giapponese si sono svolte in venti città cinesi e si è pure ventilata la proposta – non certo una novità nella storia della lunga rivoluzione cinese – di avviare una politica di boicottaggio contro i prodotti di Tokyo. Le autorità tuttavia, mentre chiedono a Tokyo di prestare attenzione all’opinione del popolo cinese, chiedono ai propri concittadini di non esagerare e ricordano che la “saggezza è necessaria nell’espressione del patriottismo“.

Le isole Diayou sono state strappate alla Cina nel 1895 in seguito alla sconfitta nella guerra con il Giappone. In base al Trattato di Shimonoseki quest’ultimo ottenne dalla Cina la rinuncia al controllo della Corea, la cessione di Formosa (odierna Taiwan) e delle isole ad essa collegate – tra queste le Diaoyu – il riconoscimento dei privilegi commerciali riconosciuti alle potenze occidentali all’indomani delle due guerre dell’oppio e il pagamento – umiliazione estrema per un Paese aggredito – di una indennità di guerra. Insomma, per Pechino la sovranità sulle Diaoyu è legata a doppio filo alla dolorosa storia dell’attacco imperialista da parte di un vero e proprio cartello di potenze.

Come ricorda lo storico Jurgen Hosterhammel, quello della Cina è stato “l‘unico caso di regione del mondo in cui operarono tutti gli imperialismi della storia moderna” e in cui “furono sperimentate pressoché tutte le forme possibili di influenza esterna”. Quella sconfitta diede, da un lato, il via al vero e proprio processo di spartizione del territorio cinese, con lo stabilimento di zone di influenza e concessioni territoriali (conosciuto come “Break-up of China”), dall’altro costrinse dirigenti e intellettuali ad avviare, pur tra contraddizioni e fallimenti, un percorso di modernizzazione per difendere il Paese e recuperare la centralità perduta sulla scena internazionale. Durante la seconda guerra mondiale, con la Cina (sia quella rossa che quella nazionalista) impegnata a fianco degli Alleati contro il Giappone, le Dichiarazioni del Cairo e di Potsdam – entrambe accettate da Tokyo dopo la resa- ristabilirono la sovranità cinese sulle Diaoyu perché illegalmente sottratte dall’imperialismo giapponese. Ma con l’emergere della guerra fredda e all’indomani della guerra di Corea, le isole restarono sotto amministrazione statunitense, entrando nel dispositivo di contenimento del comunismo in Asia, come sancito dal Trattato di pace di San Francisco del 1951. Trattato al quale non fu chiamata a partecipare l’ostracizzata Repubblica Popolare Cinese che, tuttora, non ne riconosce la validità. In base ad esso gli Usa trasferirono nel 1971 l’amministrazione delle isole, poste sotto la prefettura di Okinawa, al Giappone.

Nell’analizzare la dura reazione di Pechino alla decisione giapponese sulla “nazionalizzazione” delle isole, va tenuto presente che il PCC, da Mao a Hu Jintao, ha sempre ribadito la sua natura di forza rivoluzionaria e nazionale che ha portato a compimento la lunga lotta per la riconquista dell’indipendenza e della sovranità. I sempre più stretti rapporti commerciali tra le due potenze asiatiche sono proseguiti negli ultimi decenni sulla direttrice della “cold politics, hot economics”, quanto sull’invito di Deng Xiaoping del 1978 di “mettere da parte la sovranità e di concentrarsi sullo sviluppo congiunto” dal momento che i rapporti di forza tra i due Paesi non permettevano certo una rapida soluzione delle questioni aperte sulla sovranità delle isole e che le necessità cinesi di avviare la modernizzazione sconsigliavano di urtare la sensibilità giapponese. Oggi la Cina è il primo partner commerciale di un Giappone ancora in crisi economica: quest’anno le sue esportazioni verso di essa hanno raggiunto il valore di oltre 73 miliardi di dollari, mentre le importazioni quello di oltre i 91 miliardi. Inoltre, il 30 dicembre dello scorso anno Pechino e Tokyo hanno chiuso un’importante accordo sulle transazioni commerciali in valuta locale (Yuan e Yen), in modo da alleggerire il peso del dollaro come moneta principale nel loro interscambio.

Ma ora Pechino vive con maggiore preoccupazione la presa di posizione del governo del premier Noda – e la corsa al nazionalismo all’interno del Partito liberaldemocratico – anche perché si trova impegnata in una serie di controversie sulle sue acque internazionali dal Mar Cinese meridionale fino al Pacifico Occidentale, dietro alle quali sente sempre più la presenza degli Stati Uniti e la loro volontà di portare avanti una politica di contenimento nei confronti dell’ex Celeste Impero. Sensazione rafforzata da diverse dichiarazioni statunitensi sull’applicazione alle isole del Trattato di sicurezza del 1951 (rinnovato nel 1960) – trattato che fece di Tokyo una fortezza antisocialista nella Guerra fredda – e dalle recenti esercitazioni militari congiunte americano-nipponiche che ipotizzavano l’intervento su un’isola occupata da forze nemiche.

E da settori dell’opinione pubblica cinese più attenti ai richiami del nazionalismo come da esponenti dell’Esercito Popolare di Liberazione – che è forza armata del Partito al governo – arrivano richieste di una maggiore assertività che vada oltre le semplici proteste diplomatiche: secondo l’influente Global Times la Cina, mentre “la sua forza nazionale è in crescita e viene tenuta sotto uno sguardo vigile da parte delle potenze occidentali come gli Stati Uniti”, dovrebbe “cercare ogni occasione per prendere il controllo delle isole contese” senza temere forze esterne. L’invito rivolto alla potenza marittima cinese è quello di “manifestarsi nelle acque intorno alle Diaoyu” perché “lo sviluppo della Cina nei prossimi decenni è legato alle isole Diaoyu”. La dirigenza cinese teme un rinnovato protagonismo giapponese, sospinto da una ondata nazionalista della destra anti-cinese, sotto l’ombra di una Washington che potrebbe avere alla guida un repubblicano come Romney non certo “soft on China”. Conviene ricordare che Kitta Ikki, il maggiore ideologo del fascismo giapponese (“tennosei fashizumo”), prospettava per il Sol Levante un futuro di dominio in Asia orientale proprio grazie ad una alleanza con gli Stati Uniti.

Entra nel club, sostieni Linkiesta!

X

Linkiesta senza pubblicità, 25 euro/anno invece di 60 euro.

Iscriviti a Linkiesta Club