Alcuni, a Bologna, hanno fatto due giorni di fila, altri, a Roma, “soltanto” uno. In tutta Italia, da Nord a Sud, come anche in Spagna, moltissime persone hanno preso d’assalto negozi e centri commerciali per assicurarsi l’iPhone 5, l’ultimo smartphone sfornato dalla Apple. «La crisi morde», hanno scritto i giornali, «eppure la gente si mette in fila per accaparrarsi il nuovo melafonino».
Qui, però, la crisi economica c’entra come i cavoli a merenda. Non c’è dubbio che viviamo in un’epoca dove miti e fantasmi proliferano alla grande. Qualcuno dà la colpa al venir meno dei valori, altri se la prendono con i giovani “che passano tutto il tempo davanti al computer”. Tutti cliché. In realtà, la tendenza a costruirsi un idolo e la bramosia di possederlo a tutti i costi è da sempre una tendenza tipicamente e profondamente umana. Come umanissima è l’illusione che, possedendo l’oggetto, l’uomo abbia risolto il dramma del suo desiderio.
Tra bisogno e desiderio – una distinzione essenziale per comprendere l’uomo – c’è una differenza enorme. Se ho sete, so perfettamente qual è l’oggetto (il bicchiere d’acqua) che può placare il mio bisogno. Quando desidero, invece, non so propriamente di che cosa ho bisogno e così ogni qualvolta uno crede o sogna di aver individuato la cosa o l’oggetto (l’iPhone 5 o l’abito griffato, fa lo stesso) del proprio desiderio, ecco che puntualmente l’oggetto fallisce, non mantiene la promessa e di conseguenza il desiderio, anziché placarsi, si acuisce.
«L’animale», notava lucidamente il filosofo materialista Alexandre Kojève, «ha fame, mangia per soddisfare il suo desiderio ed è quello che mangia (…). E se è vero che anche l’uomo “è ciò che mangia”, egli però è e resta desiderio in quanto tale, cioè assenza della realtà propriamente detta, dello spazio-tempo materializzato».
Il desiderio dell’uomo non è bisogno, non è un bisogno particolare e neppure l’insieme dei bisogni. È su questo che molte filosofie materialiste inciampano perché riducono l’uomo alla sola dimensione del bisogno. «Non di solo pane vivrà l’uomo», dice Gesù nel Vangelo.
L’uomo – dal tizio descritto dal profeta Isaia che si costruisce una statuetta di legno e la adora come un dio alle file di questi giorni per comprare l’iPhone – ha sempre tentato di colmare la mancanza del desiderio che lo abita in quanto soggetto con il godimento derivante dal possesso o dal consumo degli oggetti. D’altra parte, la Bibbia, dalla prima all’ultima pagina, mette in guardia proprio da questa pulsione idolatrica. Sarebbe sbagliato, tuttavia, pensare che l’oggetto non dia alcun godimento, almeno nell’immediato. Il Salmista la mette giù così: «Gli idoli delle genti sono argento e oro, opera delle mani dell’uomo. Hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono, hanno orecchi e non odono, hanno narici e non odorano. Hanno mani e non palpano, hanno piedi e non camminano; dalla gola non emettono suoni» (Salmo 115, 4-8).
Fuor di metafora: per un po’ di tempo l’idolo sta in piedi, fa godere, dà qualche soddisfazione. È alla lunga che non regge perché si rivela sempre insufficiente e fallimentare rispetto al desiderio.
Il consumismo odierno ha facilitato molto questa pratica di “illusione a buon mercato”, realizzando perfettamente quel «bisogno di comunione nell’adorazione» di cui parlava Dostoevskij. In fondo, gli oggetti creati dalla società dei consumi, come appunto l’iPhone, sono, più che idoli, “idoletti”, capaci, con la loro forza attrattiva, di coinvolgere e divertire masse sempre più ampie e sempre più distratte.
Ecco, dunque, che con le file di questi giorni per l’iPhone 5 va in scena il vero volto del consumismo capitalista: un’idolatria per masse a basto costo.