Nel giugno 2012 un inviato del Courrier des Balkans, Florentin Cassonet, ha marciato insieme al corteo che per ricordare Vidovdan – l’epica battaglia di Kosovo del 1389 – ha compiuto una marcia da Belgrado a Gazimestan. 350 chilometri in poco meno di due settimane, che ci permettono di scoprire qualcosa di più della galassia della destra nazionalista Serba. La seconda parte del suo racconto.
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Difficile sbarazzarsi dei propri simboli ideologici: tra Ratko Mladić, Draža Mihajlović, oppure l’odio per “i Turchi”, i nemici di sempre. Le organizzazioni cercano sempre di più di sbarazzarsi di questi cliché, o di adattarli a qualcosa di meno caricaturale, e di più accettabile. Oggi, il posto che era dei Turchi è stato rimpiazzato dalla NATO. E sullo sfondo di tutto questo, ritornano in auge le popolari teorie del complotto internazionale ai danni dei Serbi.
La marcia di Vidovdan commemora la battaglia nel campo dei merli nel 1389. Essa simboleggia, per i nazionalisti, la sfida tra Serbi ortodossi e Turchi musulmani. Questo 28 giugno 2012, nella cinta protetta dal filo spinato del monastero ortodosso di Gračanica, enclave serba di Kosovo, si respira un po’ un aria di “ultimo rifugio” contro l’Islam in Europa: il patriarca Irinej, capo della Chiesa Ortodossa Serba, ricompensa le donne che hanno messo al mondo quattro figli o più. Nel 2010, Arnaud Gouillon, capo del “Bloc Identitaire” francese (ed effimero candidato alle elezioni presidenziali del 2012) aveva ripercorso la marcia con dei nazionalisti serbi, facendo di Kosovo Polje un luogo di “Contro-Jihad” e di unione per i partiti di estrema destra europei.
In un’intervista esemplare a Riposte Laïque, Gouillon riscriveva la storia del Kosovo a partire dal Medioevo, demonizzava l’Islamizzazione di questa regione e prediva il futuro – cupo – della Francia: “Bosnia, Kosovo, Sangiaccato costituiscono una vera e propria diagonale verde all’interno del cuore dell’Europa. I Serbi sono stati cacciati dall’immigrazione musulmana. Il Kosovo è, per i Serbi, quello che il dipartimento della Seine-Saint-Denis è per la Francia. Le condizioni sono ottimali perché quello che è successo qui si ripeta, un giorno, anche nel nostro paese”.
Arnaud Gouillon è, come si suol dire, più realista del re. Lo stesso Rade Ljubičić, organizzatore della marcia, si rifiuta di fare un parallelo diretto tra il 1389 ed il 2012: “nel 1389, si trattava di difendere l’Europa contro l’Islam e i Turchi, e l’Europa ci fu riconoscente del nostro sacrificio. Gli Albanesi, oggi, sono un problema minore. Nel 1999, la guerra fu una guerra di aggressione della NATO, dell’Occidente. Il cristianesimo quindi è messo in pericolo non dall’Islam, ma dai paesi cristiani che si basano su valori non cristiani”. Rade si pone, in un certo senso, nella continuità di una “battaglia culturale” che si rifà alla guerra fredda – ma non solo, l’ideologia del Panslavismo essendo molto più antica – tra un Occidente depravato, guidato dalla Nato, e un Est Ortodosso, guidato dalla Russia. Questa alleanza è presente persino nella sua vita privata. L’anno scorso Rade, 34 anni, si è sposato con una Russa incontrata sulla strada tra Serbia e Kosovo durante la marcia di Vidovdan.
“Siamo in guerra”.
Milan, 28 anni, spiega questa alleanza Serbo-Russa: “Uno stesso sangue scorre nelle nostre vene. La religione ha valore secondario”. E’ in ragione di questa retorica basata su sangue ed ortodossia che possiamo capire l’etichetta che è stata attribuita ai movimenti come questo: nel dettaglio, li si accusa di essere dei “clerico-fascisti”.
Milan vive con i suoi genitori ed ha un lavoro stagionale. Non è nemmeno membro del Movimento 1389, è solo un simpatizzante. Ma conosce tutto delle dinastie reali Serbe. E spesso, inalbera una t-shirt con la faccia di Ratko Mladić. Anche il Generale dell’Armata Serba di Bosnia desiderava ricavarsi un posto nella storia dei miti di Serbia, quando dichiarava, alla vigilia della presa di Srebrenica: “è tempo di prenderci la nostra rivincita contro i Turchi”. Milan: “Ratko Mladić è un grande soldato. Ha difeso il popolo serbo”. Il generale è sotto processo al Tribunale Penale dell’Aia, accusato di crimini di guerra e di genocidio. Ma Milan nega tutto: “dei veterani della guerra in Bosnia ci hanno confidato che, ogni anno, i cadaveri di persone morte di cause naturali vengono portate al cimitero di Potočari per gonfiare il numero delle vittime”. Ora, se è vero che ci sono delle nuove sepolture anno dopo anno, è perché proprio Mladić, per coprire il crimine, ha fatto sparpagliare i cadaveri in più fosse comuni attraverso la Bosnia nord-orientale, e perché la polizia scientifica non ha, ad oggi, ancora identificato i resti delle 6.000 – 8.000 vittime del massacro.
Che ci sia stato un genocidio a Srebrenica, nemmeno Rade lo crede. Ma egli giustifica più finemente il proprio sostegno al Generalissimo: per lui, Ratko Mladić è il simbolo di una giustizia internazionale “a due velocità”, rivolta esclusivamente contro i Serbi che, dalla dominazione ottomana all’invasione nazista, sono le eterne vittime della storia.
Infine c’è Milena, trentenne, dottoressa in Fisica e Ricercatrice all’Università di Belgrado. “E’ una guerra. Il processo per separare i popoli della regione è cominciato negli anni novanta, e non è ancora finito”. La giovane mette il proprio spirito razionale al servizio della spiegazione della storia contemporanea nei Balcani. “Milošević era un ostacolo per l’affermazione dell’economia di mercato in Jugoslavia. Gli Americani hanno spinto quindi la Croazia e la Bosnia a dichiarare l’indipendenza, sapendo che questo avrebbe portato alla guerra. Milošević è stato sicuramente ucciso all’Aia, perché la verità è dalla nostra parte, ma loro vogliono nasconderla”. Milena non sa esattamente chi siano, questi “loro”: “sappiamo quali sono i nomi degli esecutori finali, come Boris Tadić e Hashim Thaçi. Ma ignoriamo i nomi dei mandanti”. Questi siederebbero alla Nato, all’Unione Europea, in seno ai Governi Occidentali e alle ONG finanziate da George Soros, il miliardario Ungaro-Americano.
Come possono queste teorie riscuotere ancora così larghi sostegni? Il giovane storico serbo Vladimir Petrović propone una spiegazione: “la maggior parte di questo movimento, ma anche una parte della popolazione, sono bloccate in una comprensione lineare della storia serba, dal Medioevo ad oggi. Ciò crea, inevitabilmente, delle mistificazioni. Su tutto regna la teoria del complotto. Lo stato, negli anni Novanta, ha alimentato i miti di questo delirio di massa, attraverso la propaganda di guerra. E questo è continuato, in misura minore, al termine del conflitto, nella vita politica della giovane repubblica di Serbia”.
(fine parte II – continua)