BELGRADO – SARAJEVO
Lasciamo l’ostello che ci ospita nel centro di Belgrado, proprio nei pressi dello zoo cittadino e ripartiamo verso Sarajevo, ma prima ci godiamo l’ultimo caffè belgradese assieme a Vladimir Arsenijević.
Gli impegni per il Krokodil stanno quasi terminando, abbiamo finalmente un po’ di tranquillità e possiamo salutarci con calma. Riprendiamo dunque la strada di ieri e passiamo Šabac proseguendo a sud fino al confine di Zvornik. Da lì la strada corre verso Sarajevo sull’altopiano di Romanija lungo le antiche terre dei Valacchi, tagliando a metà la linea immaginaria che unisce Tuzla a Srebrenica. Le colline della Bosnia sembrano aprirsi docilmente all’asfalto che s’inerpica attraverso boschi di latifoglie e macchie di Sambuco in fiore. E’ una terra dolce ed ospitale che ci circonda. Forse anche per questo la Bosnia ha la forma del cuore. Vent’anni fa qui era cominciato l’inferno con gli scontri che anticiparono ed accompagnarono l’assedio di Sarajevo. Alcuni sostengono che il tremendo spettacolo della città bombardata fosse una strategia per mantenere il più possibile fuori da queste zone i media, permettendo alle truppe serbe di realizzare indisturbate la pulizia etnica. Per avere un’idea di quello che è successo qui basta leggere un volume qualsiasi di storia contemporanea. Anche le cronache più asettiche diventano efferate quando descrivono l’inferno.
Passiamo Vlasenica, paese natio di Radislav Krstić, il generale zoppo che fu accusato per primo del genocidio dei musulmani bosniaci. La sua difesa si basò sul refrain del “stavo solo eseguendo gli ordini”, ma non gli evitò i quarantasei anni di galera per crimini di guerra, né di essere quasi ammazzato di botte da tre musulmani nel carcere inglese in cui stava scontando la pena. Viene in mente il film di Milčo Mančevski, Prima della pioggia, con quella catena di violenza che non si ferma mai. Dopo una curva passiamo per Han Pijesak, un punto strategico per l’esercito serbo e il furgone procede in silenzio sull’altopiano, alcuni sonnecchiano, altri sembrano assorbiti dalla bellezza del paesaggio.
Paderna guida lentamente lungo il percorso sinuoso che ci porta all’ultima tappa di questo tour, come meditasse sulla storia di queste montagne insanguinate. Forse anche per questo la Bosnia ha la forma del cuore.
SARAJEVO
Arriviamo alle sei abbondanti. Finiamo dentro un ingorgo impossibile che ci costringe a dirottare il furgone lungo vicoli strettissimi.
Nel mezzo della bolgia di mezzi che girano, stringono e frenano veniamo avvicinati da un ragazzo che capisce che siamo stranieri e ci spiega immediatamente la strada più breve per la Titova Ulica, dove si trova l’ostello in cui dormiremo. Il suo aiuto provvidenziale è un’accoglienza degna della fama della città.
I ragazzi di Humanity in Action che si occuperanno dei libri stasera sono impegnati, ed il pochissimo tempo a nostra disposizione c’impedisce di incontrarli. Li sentiamo al telefono, per appurare che tutte le pratiche necessarie alla spedizione dei libri da Zagabria siano a buon punto. Passiamo davanti alla biblioteca nazionale.
E’ l’unica che non riusciremo a vedere, oltre che per il pochissimo tempo a nostra disposizione, anche per le condizioni in cui riversa l’edificio, ricoperto com’è da impalcature e drappeggi: un cantiere enorme che un lentissimo lavoro di ricostruzione sta cercando di riportare al suo splendore. Proseguiamo col furgone lungo la Miljacka, il fiume che testimoniò l’assassino di Francesco Ferdinando e notiamo i molti segni dell’assedio. I buchi delle granate decorano spaventosamente anche i muri dell’ostello in cui lasciamo i nostri bagagli e ovunque attorno a noi è impossibile non imbattersi nei fori dei colpi esplosi contro gli edifici. Le firme degli assedianti rimangono ancora indelebili sulla città. Al club Underground incontriamo Slaven, a cui i ragazzi di Humanity in Action hanno delegato la nostra accoglienza.
Slaven è un duro dal cuore tenero. Un metallaro impegnato nella promozione della musica underground con una lunga carriera di promoter e musicista. A quanto pare è stato tra i primi a suonare punk e metal nei gruppi nati nel dopoguerra. Il club Underground è in pieno centro. Prima di noi suonerà un gruppo macedone, i Verka, anche loro in tour per l’ex Jugoslavia. Slaven ci spiega che durante l’assedio l’Underground era un bunker in cui alcune famiglie avevano trovato riparo dai mortai. Sul palazzo di fronte notiamo il segno di una granata “E’ caduta a qualche metro da un gruppo di bambini che giocavano qui davanti” ci dice Slaven, “Per fortuna nessuno si è fatto male”. Slaven è restio a parlare del conflitto. Durante l’assedio scappò in Germania. Lì terminò le scuole e imparò il tedesco. Poi decise di tornare, ma nel suo villaggio la casa non esisteva più. Non gli rimaneva che andare a vivere nella capitale. “Non ho vissuto a Sarajevo durante l’assedio, mi sembra poco rispettoso raccontare cose che altri hanno provato sulla loro pelle”, insiste. Freniamo la curiosità, e dopo il soundcheck giriamo per la città rimanendone amaliati.
Prima, mentre il furgone attraversava gli stretti vicoli, pensavamo ai racconti spesso sentiti sull’assedio: la continua esposizione al tiro che veniva dalle montagne, la necessità di scegliere il giusto passo che non infastidisse il cecchino per la sua lentezza, o gli sembrasse una sfida per la sua velocità. Ora ci troviamo tra chiese e moschee che si alternano lungo le vie centrali mentre un fiume di persone cammina svagato. Un altro mito, quello della tolleranza e della convivenza sembra trovare conferma, anche se in molti dicono che su questo fronte le cose stanno cambiando.
Eppure non avremmo mai pensato che Sarajevo profumasse anche di ristoranti e di leccornie fragranti, e che qui, come dimostra il panino con ćevapi e cipolla che mangiamo prima del concerto, si mangiasse il cibo più saporito di tutta l’ex Jugoslavia. Finalmente il concerto comincia. Tre ore tirate di musica. Con Tornerai come ultimo pezzo chiudiamo la serata e con questa il nostro tour nei Balcani. I Verka, concordano sull’atmosfera della città. Loro vengono dalla piccola repubblica di Macedonia, una terra rimasta ai margini del conflitto, ma quello che è successo in Jugoslavia sembra anche a loro un incubo paradossale. Parliamo assieme dopo il concerto. Gli echi della loro musica, un hardcore mescolato a incredibili ritmi dispari, sono ormai spenti e chiediamo cosa rappresentasse per loro Sarajevo. “It was the soul of Jugoslavia”. Era l’anima della Jugoslavia.
STRADA DEL RITORNO
Mattina presto, riprendiamo il furgone, salutiamo Slaven e partiamo verso nord. All’uscita della città mendicanti e lavavetri ci circondano ad ogni semaforo. A fatica prendiamo verso la Croazia per il breve ed unico pezzo di autostrada presente, attraversando quelle zone che tanto bene descrive lo scrittore bosniaco Miljenko Jergović nel suo Freelander. Viaggiamo attraverso i villaggi distrutti e le case crivellate di colpi. Cecilia guarda dal finestrino, a volte scatta foto incredule. Viene da Buenos Aires, è abituata un po’ a tutto, ai residui delle dittature come alle crisi economiche che sbattono al tappeto i paesi, ma non aveva mai visto i resti di una follia come questa. Commentiamo quasi sottovoce quello che vediamo attorno a noi. Il confine tra Bosnia e Croazia ci aspetta ad un centinaio di chilometri. Ci siamo riusciti. Abbiamo portato a termine il tour e i libri saranno consegnati. I contrabbandieri di libri e musica tornano verso casa. Prima di entrare in Croazia ci fermiamo in una pekara per mangiare al volo qualcosa appena cucinato dal fornaio.
Ci avvicina l’equipaggio di una macchina targata Bosnia. Parlano italiano. Tre bosniaci, un uomo e due donne che viaggiano anche loro verso l’Italia. L’uomo lavora a Cividale e i tre hanno parenti nelle Valli del Natisone. Sono le solite strane coincidenze dei viaggi che fanno sembrare il mondo piccolo come in fondo è.
Recuperiamo l’altro furgone a Zagabria. Nessun problema all’ultima frontiera, quella tra Croazia e Slovenia. Nessun problema, per noi almeno, perchè il furgone a fianco del nostro, proveniente dalla Bosnia, viene fermato e controllato con la massima attenzione finchè dal vano motore la polizia comincia ad estrarre bottiglie nascoste un po’ ovunque. Quando entra in scena una strana pompa con cui i doganieri cominciano a svuotare il serbatoio annusando il liquidino trasparente che contiene, il conducente butta gli occhi al cielo e scuote la testa. Stanno portando un carico di rakija di contrabbando. Si direbbero ettolitri, a giudicare da quanto continua ad estrarre la pompetta dal veicolo. Un po’ ci dispiace per loro, ma tiriamo dritto verso Ljubljana e oltre, per quel po’ di strada che ancora manca. Le prime scritte Italia compaiono sui cartelli. Si torna a casa.