A mente fredda1922: la violenza fascista ha la meglio su un sistema politico schiavo del proprio immobilismo

Pur considerando sempre inadeguate e superficiali attualizzazioni troppo dirette degli eventi storici e dei cicli socio-politici del passato, ritengo che se guardati nella giusta luce gli eventi at...

Pur considerando sempre inadeguate e superficiali attualizzazioni troppo dirette degli eventi storici e dei cicli socio-politici del passato, ritengo che se guardati nella giusta luce gli eventi attorno alla marcia su Roma, di cui tra poco ricorrerà il novantesimo anniversario, possono indurre a qualche utile riflessione sul presente.

Il prossimo 28 ottobre ricorrerà il novantesimo anniversario della marcia su Roma, il colpo di forza che (sicuramente con la colpevole e decisiva connivenza della Corona e di gran parte della classe dirigente di allora) portò nel 1922 Benito Mussolini a formare il suo governo, e ad acquisire nel giro di pochi anni i pieni poteri. In questi giorni, sia in ambito accademico che nelle istituzioni si è fatta piuttosto decisa la tendenza a promuovere momenti di riflessione sui fatti che portarono, all’inizio degli anni Venti, al collasso dello stato liberale italiano sotto i colpi di un soggetto politico sicuramete inedito, difficile da interpretare e guidato con fiuto politico e indubbie capacità tattiche, ma senz’altro incapace di portare a termine il proprio assalto violento a un sistema istituzionale in grado di opporvisi con la dovuta decisione.

Al fondo di questa tendenza si può leggere forse un tentativo di spingere, sulla scorta della storia, a riflettere sull’attuale crisi del sistema politico e sulle minacce che la comprensibile insoddisfazione nei confronti di esso può animare. Personalmente, io sono sempre scettico nei confronti di attualizzazioni così immediate e forzate, soprattutto quando, come in molti di questi casi, sono proprio i protagonisti dell’attuale sistema istituzionale e di rappresentanza sociale a utilizzare il paragone delegittimante col fascismo allo scopo di facilitare la propria autoconservazione squalificando le alternative. Resta tuttavia il fatto che, se messa a punto con le dovute cautele metodologiche e senza l’intento di un immediato effetto di valutazione delle opzioni politiche prese in considerazione, una equilibrata comparazione dei due momenti può aiutare.

Qualche mese fa aveva avuto buona circolazione e aveva suscitato ampie discussioni un post del blog di Tommaso Ederoclite che paragonava in maniera non superficiale e per certi versi condivisibile il fenomeno-Grillo al protofascismo, individuando effettivamente alcuni elementi di contatto nella voluta refrattarietà a collocarsi nell’agone politico in un qualunque rapporto con le altre forze, nell’esplicita e violenta rivendicazione a sé del ruolo di alternativa di sistema rispetto alle istituzioni vigenti, nell’appello alla rappresentanza delle “forze sane” del paese, nella durezza dei linguaggi. Naturalmente questo paragone teneva in disparte (e l’autore ne era consapevole) il ruolo fondamentale che la violenza esercitava non solo nella prassi politica fascista, ma anche nell’attribuzione ad esso di un ruolo sociale di repressione “privata” delle sollevazioni di altri soggetti politici, in un contesto in cui molto più di oggi lo stato faticava a mantere il monopolio della forza ed era sfidato su questo piano non solo dai fascisti, ma anche da numerosi altri soggetti. Tuttavia alcuni elementi sembravano essere suggestivi nell’individuare in una crisi di rappresentanza e di fiducia nella riformabilità delle istituzioni liberali e pluraliste inedito dal primo dopoguerra il maggiore problema italiano attuale.

Certi spunti mi sono tornati alla mente proprio in questi giorni, quando per la partecipazione a uno dei suddetti incontri di commemorazione della marcia su Roma ho ripreso il classico volume di Angelo Tasca Nascita e avvento del fascismo (Firenze, La Nuova Italia, 1995 [1950]), uno dei primi tentativi di riflettere criticamente sul fenomeno del fascismo italiano, redatto dall’autore durante il suo esilio francese prima ancora dello scoppio della Seconda guerra mondiale.

L’autore, appartenente al gruppo torinese raccolto attorno all’Ordine Nuovo con Gramsci e Togliatti, era stato uno dei fondatori del Partito comunista d’Italia nel 1921, ma dal partito era stato espulso nel 1929, in concomitanza con la caduta in disgrazia a Mosca del gruppo sovietico di Bucharin, il più vicino alle sue posizioni “di destra”, aperte alla collaborazione con le forze socialiste e alla revisione di alcuni capisaldi della proposta ideale e pratica stalinista che ormai si stava affermando come cifra operativa del comunismo internazionale.

L’espulsione sancì il suo ritorno nella galassia socialista italiana in esilio in Francia, su posizioni di decisa ostilità a un comunismo di cui aveva conosciuto il volto più tetro e di continua revisione e ridiscussione dei “dogmi” ideologici su cui gran parte della cultura marxista sembrava arenarsi negli anni Trenta. Questo atteggiamento lo avvrebbe portato anche a errori di valutazione clamorosi (come la collaboazione con il regime di Vichy a partire dal 1940, svolta contestualmente a diversi contatti con le reti antifasciste europee nell’illusoria speranza che il governo di Pétain potesse affrancarsi dal controllo tedesco e gestire una transizione verso la pace), ma in ogni caso rappresentò un prezioso punto di partennza per una riflessione sull’esperienza politica italiana della prima metà del XX secolo spregiudicata e libera dai lacci dell’ortodossia.

Nell’avvicinarsi allo studio del fascismo, in particolare, Tasca dovette confrontarsi con la rigidità interpretativa che nonostante la maturità mostrata da alcuni suoi esponenti (come il Togliatti delle “lezioni sul fascismo” tenute a Mosca ai primi del 1935) era stata imposta al comunismo internazionale dal Comintern, che nel suo VII congresso dell’estate del 1935 aveva individuato la definizione “ufficiale” e pressoché unica del fenomeno fascista nelle parole di Georgi Dimitrov, “la dittatura terrorista aperta degli elementi più reazionari, più sciovinisti e più imperialisti del capitale finanziario“. Una descrizione così netta e unilaterale, appiattita sul dato economico e di classe, si sarebbe mostrata sicuramente comoda sul piano politico, perché avrebbe permesso al comunismo internazionale di individuare nel fascismo un doppio del capitalismo, e in sostanza di promuovere ampie alleanze e coalizioni contro di esso senza rinnegare il proprio legame di rappresentante delle classi lavoratrici per l’edificazione del socialismo, e individuando in se stesso, per il proprio anticapitalismo, l’unica efficace forma di antifascismo. Tuttavia, secondo Tasca ben poco si spiegava del fascismo se ci si limitava a irrigidirne la natura su alcuni aspetti specifici e si rinunciava a scriverne la storia, trovandosi quindi di fronte a un fenomeno decisamente più complesso e destinato a mutare il proprio aspetto nel corso del tempo, subendo i condizionamenti del mondo con cui si confrontava con insospettabile flessibilità.

Anzi, per Tasca già negli anni Venti fu proprio l’arroccamento ostinato del socialismo italiano, dell’unica grande forza di democratizzazione e di svecchiamento per un sistema politico postunitario che si era costituito sull’ostinata esclusione delle masse popolari dalla partecipazione alla vita politica, sulle proprie parole d’ordine ideologiche, sulle prassi istituzionali interne che il partito aveva consolidato, sulla propria forma di penetrazione ed azione sociale, a decretare la sconfitta della legalità contro il fascismo. Le colpe delle classi dirigenti tradizionali erano innegabili e profonde, ma proprio per l’impossibilità dello stato liberale di concepire al proprio interno una riforma efficace la responsabilità di un simile adeguamento spettava al Partito socialista, il quale però in tutte le sue varie sfaccettature tanto riformiste quanto radicali si era rivelato incapace di trasformare il coinvolgimento popolare nell’imposizione a tutto il sistema di una vera partecipazione.

Ciò che più può interessare di questo giudizio al lettore odierno è proprio la condanna di un atteggiamento di rifiuto a guardare oltre i propri confini, a rendersi conto che c’era un’intera società che, di fronte al crollo di fiducia di gran parte delle altre forme di vita istituzionali, era pronta a guardare alla volontà di cambiamento di cui il socialismo italiano avrebbe dovuto farsi portatore, e che era stata delusa non tanto dalla (pur reale) carenza programmatica del movimento, ma dalla sua apatia di fronte alla necessità di dialogare in forme diverse con elementi dell’opinione pubblica e della vita sociale italiana che non potevano semplicemente essere inglobati nei meccanismi del partito, ma arrivavano all’appuntamento pensando di poter portare qualcosa di autonomo. “Grazie alle magnifiche realizzazioni delle loro cooperative, delle loro Camere del Lavoro, dei loro Comuni, – sosteneva Tasca – i socialisti della Valle Padana si proponevano di incorporare l’’antico regime’ per saturazione”, e di questa illusione di completezza sono rimasti vittime.

La debolezza fondamentale del socialismo italiano in ogni suo aspetto si ricollega ad una assenza di vero spirito rivoluzionario. Lo spirito rivoluzionario oscilla fra due poli, è soggetto ad una duplice esigenza: il rifiuto di accettare l’ingiustizia e la bassezza della società attuale, e la volontà di giungere a un nuovo regime economico, a nuove istituzioni che esprimano nuovi rapporti umani e li rendano possibili. La negazione del presente non può essere disgiunta dall’affermazione dell’avvenire donde essa riceve la sua luce, forza e giustificazione. […]

Affinché una classe sia veramente rivoluzionaria occorre, dice Marx, che “abbia innanzi tutto il sentimento di essere non una classe particolare, bensì la rappresentante dei bisogni generali della società”.

Questo lievito, che solo poteva farlo ascendere al livello che gli avrebbe dato la vittoria, è mancato al socialismo italiano. Di fronte a una borghesia sconcertata, rimasta ostinatamente “classista” in mezzo al grande sconvolgimento che si era prodotto e che aveva esasperato il suo egoismo e scatenato i suoi appetiti, il movimento socialista aveva un compito magnifico. Se avesse avuto la forza di restarvi fedele, a lui solo il popolo italiano avrebbe dovuto la propria salvezza.

[…] Invece il socialismo si sottrasse al suo compito e durante tutta la crisi postbellica fu il grande assente. Senza questa diserzione sarebbe impossibile spiegare il successo fascista. Anche più della natura, la società ha “orrore del vuoto”; se lo si lascia sussistere troppo a lungo, le forse più selvagge, attratte e moltiplicate da esso, si precipitano a colmarlo.

Simili mancamenti esprimono sempre anche un difetto d’umanità: la categoria, il partito, la classe restano prigionieri dei propri confini, e invece di sentirli come limiti, giungono persino ad idealizzarli, rinunciando così a superarli, benché in ciò consistano l’esigenza suprema e lo spirito vitale del socialismo. Lo iato che finì per stabilirsi tra le organizzazioni operaie, politiche e sindacali, e le masse italiane non ha altra origine.

[…] Il movimento socialista non s’è reso conto che la guerra aveva spinto sulla scena le masse, i fuori classe. Non era più possibile interpretare questa esperienza smisurata colle antiche misure conservate nelle cantine dei vecchi sindacati e dei vecchi partiti. Ritornando dal fronte l’ex combattente trova una società a un tempo stesso troppo instabile e troppo ordinata. Anche la “rivoluzione” è troppo ordinata per lui: tessera del partito, quota sindacale, impegno nella cooperativa, tutto drizza una barriera ch’egli non può oltrepassare, perché gli si oppongono diffidenza o tolleranza, egualmente insopportabili.

I capi socialisti italiani non capirono gli ex combattenti del 1919-22 più di quanto i capi dei sindacati tedeschi capiranno i disoccupati del 1929-32. […] Non erano più tempi di pedagoghi, per nobili che questi fossero, bensì di profeti e di missionari. Bisognava lasciare un po’ da parte il gregge nel partito e nei sindacati, e andare in cerca delle “pecore smarrite” che a centinaia di migliaia brulicavano nelle terre incolte, e salvarle e salvare noi con esse.

I nuovi fenomeni e i momenti inediti della vita politica e sociale vengono irrimediabilmente fraintesi se si interpretano con gli abiti mentali tradizionali, e non si può pensare di affrontare una situazione di emergenza per le forme della rappresentanza come quella che si profila in questi mesi senza ridiscutere non solo le proprie proposte, ma anche modi di coinvolgimento e pratiche decisionali. A chi oggi, nel mondo politico italiano, vive tronfio della propria autosufficienza e della sicurezza di proporsi come forza sicuramente vincente in quanto “unica presentabile”, ed è quindi convinto di non doversi mettere profondamente in discussione, non si può che ricordare come un monito la considerazione finale di Tasca sul suicidio politico del Partito socialista dopo la Grande guerra:

Il socialismo italiano aspettava che la “borghesia” morisse di “sua propria morte”, senza preoccuparsi di sapere se la sua agonia – ammesso che di agonia si trattasse – non seminasse, prolungandosi oltre misura, germi di decomposizione che avrebbero agito in tutto il corpo della nazione, movimento operaio e socialista compreso. Il quale si comportava come un erede unico che non vuol presentarsi se non all’ultimo momento, giustappunto per l’apertura del testamento; nell’attesa, esso si limitava a “separare le proprie responsabilità da quelle della classe dirigente”.

[…] Si è responsabili del male che non si è impedito in passato […]. Si possono, al più, schivare responsabilità “giuridiche” grazie ad una specie di alibi, risorsa suprema di tutti gli imbroglioni. […] Ed allora si prendono – senza averne coscienza e quindi a cuor leggero, responsabilità ben più terribili verso la storia, la quale non giudica secondo codici e procedura, ma nel merito. Inutile allora gridare “noi non c’eravamo!”. Le masse che hanno perduto tutto, gridano alla loro volta: “E perché non c’eravate?”.