Avevo detto come la pensavo giusto qualche giorno fa: le primarie possono rappresentare uno strumento potentissimo per il rinnovamento delle “macchine-partito” e il loro adeguamento alla società contemporanea, ma delicato; alcune regole per limitare la possibilità di manipolazione da parte degli avversari e per garantire la piena rappresentatività dei candidati che esse nominano sono auspicabili, ed è abbastanza fisiologico ricercare quelle più adatte in questi periodi di introduzione e di sperimentazione; tuttavia,
era necessario pensarci prima. Non si può intervenire sulle regole ora che il parco dei candidati principali è chiaro, sono state esplicitate posizioni e strategie, e che soprattutto il vertice dell’organismo che controlla le procedure si è completamente calato nei panni di parte in lizza nella competizione. Un intervento sulle regole fatto adesso, magari con tutta la buona fede del mondo, delegittimerebbe l’intera votazione assai più della partecipazione di qualche gruppo organizzato di pidiellini urlanti o di un’affermazione del vincitore al 42%.
Non ero del resto l’unico, da queste parti, ad “appellarmi al buon senso dei dirigenti“ del PD nella gestione di una situazione, come ho detto, particolare perché sperimentale, con primarie di coalizione organizzate per una coalizione che ancora non c’è (e che non si sa che connotati prenderà dopo questo scoglio) da un solo partito. Ora si viene a sapere, stando alle anticipazioni d’agenzia sulle risoluzioni più probabili dell’assemblea di sabato, che il buon senso è andato a farsi friggere. Di fronte alla mera possibilità di candidatura da parte di esponenti del PD diversi dal segretario qualificati dalla raccolta di un certo numero di consensi interni al partiti, possibilità che non fa che riflettere i profondi cambiamenti intervenuti sullo scenario politico dall’elezione di Bersani alla segreteria e che non fa che sanare, col riferimento ad altri esempi passati, una situazione abbondantemente superata dai fatti, vengono introdotte all’improvviso modifiche che sarebbero state migliorative se costruite con gradualità e pazienza sul territorio, come l’albo dei sostenitori, o che avrebbero avuto un senso solo se proposte ed approvate per tempo, prima che le candidature fossero chiarite, quando il tempo c’era eccome e la presidenza del partito evidentemente ha preferito dormire, come il doppio turno.
È inutile stare ad almanaccare su quanto queste norme rendano le consultazioni più rappresentative dell’elettorato di riferimento del centro-sinistra, o piuttosto su quanto riflettano un’idea arcaica del comportamento politico, mutuata indebitamente dall’epoca rassicurante ma ormai tramontata dei grandi partiti d’integrazione di massa, per cui la militanza si svolge a compartimenti stagni, gli elettori di destra sono antropologicamente e culturalmente “educati” ad essere tali e non possono cambiare se non nel lungo periodo e attraverso la rinuncia a una serie di valori intangibili, ed è escluso un atteggiamento più “volatile” e aperto nei confronti della partecipazione elettorale proprio di quelle società contemporanee per confrontarsi con le quali lo strumento delle primarie risulta tanto utile.
Tutto questo non serve perché al fondo delle decisioni che si stanno per prendere questi problemi non sono nemmeno considerati. La scelta è politica: una quota maggioritaria dei vertici del Partito democratico considera una candidatura da parte di un suo aderente della prima ora, suo rappresentante nelle amministrazioni locali, illegittima, e pur essendo già di fatto parte in causa nella competizione per le primarie ha deciso di intervenire su di esse, modellando il comportamento possibile da parte degli elettori in modo che certe forme di partecipazione considerate allo stesso modo illegittime e condannabili, pur ammesse negli anni precedenti, non abbiano luogo, visto che circola il sospetto che il suddetto candidato illegittimo possa approfittarne. E poco importa se tali comportamenti rappresentano proprio il punto di arrivo di un atteggiamento dei cittadini verso la politica più sano e più razionale.
Detto in altri termini, fino a ieri si poteva pensare che le accuse a Renzi di essere “di destra”, criptoberlusconiano, infiltrato, testa di ponte del “neoliberismo” (?), prodotto di Mediaset e dei suoi uomini e quindi di una realtà culturale che, pur facendo parte del quotidiano di milioni di elettori e militanti democratici, sta intrinsecamente “dall’altra parte”, potevano essere derubricate come una certo spregevole, ma incontrollabile reazione autoimmune da parte di una frazione della base delle forze di sinistra rumorosa, ma sostanzialmente vittima dei propri pregiudizi. Adesso si è andati ben oltre la reazione autoimmune, perché un intero settore della classe dirigente non esita a prendere posizione nella mischia sostanzialmente guidata dagli stessi pregiudizi. Da tempo sospettavo che le accuse di “criptoberlusconismo” a Renzi fossero quantomeno cavalcate dai protagonisti della competizione interna alla sinistra: oggi, da quelle stesse parti si sta pensando di intervenire sulle regole del gioco guidati dal livore e dalle paranoie. Se effettivamente sarà così, comincio a chiedermi se valga davvero la pena scegliere come proprio riferimento nell’arena politica un partito minato all’interno da certi atteggiamenti di ostracismo preventivo irrazionale, e incapace di frenarli quantomeno ai suoi piani alti.