Christian Petzold esplora con rigore un periodo controverso della storia tedesca, raccontando le vicende personali di un medico della Germania dell’Est. Barbara è film raro, in cui finzione e ricostruzione storica si combinano in una vera e propria opera d’arte.
Bloomsbury è uno dei miei quartieri preferiti di Londra: nonostante sia in super centro, è silenzioso e placido, con strade poco trafficate (merito anche della tanto criticata Congestion Charge) e piazze spesso trasformate in giardini aperti al pubblico, panchine e aiuole fiorite incluse.
Dentro Bloomsbury, a pochi passi da Russell Square c’è il Brunswick Centre, una specie di centro commerciale di lusso all’aperto, integrato in una struttura residenziale a gradoni bizzarri probabilmente ispirata agli Ziggurat dei Sumeri, costruita negli anni Sessanta e per questo diversa da tutti gli edifici circostanti – più vecchi di almeno trent’anni.
Dentro il Brunswick Centre c’è un cinema, il Curzon Renoir, parte di una catena specializzata in film d’essai e proiezione live di spettacoli d’opera, spesso dal Met di New York. Il pubblico cui si rivolge è senza dubbio agiato, danaroso e istruito (dentro Bloomsbury c’è una concentrazione incredibile di università di prestigio, da UCL alla SOAS a Birkbeck), basti vedere i prezzi dei biglietti e delle membership annuali che arrivano a costare 300 e rotte sterline.
Il matinée di oggi è popolato da anziane e sorridenti signore inglesi, con i riccioli grigi e le giacche di tweed, tanto carucce e simili a come te le immagini da sembrare finte. Siccome è mezzogiorno, molte hanno dietro la schiscètta, il termos con il caffé e qualche dolcetto. Questo profumo di cucinato accompagna la mia visione di Barbara, ultimo film del regista tedesco Christian Petzold.
Sono passati sei anni da quando l’esordiente Florian Henckel Von Donnersmarck (classe 1973) vinse l’Oscar per il miglior film in lingua straniera con Le vite degli altri, aprendo la strada al racconto cinematografico del regime autoritario nella Germania dell’Est. Al suo dodicesimo film come regista, Petzold (di un decennio più anziano di Von Donnesmarck) raccoglie il testimone e costruisce, nelle parole di Peter Bradshaw, “un dramma umano elegante e raffinato, capace di esplorare dilemmi politici e umani.”
Fine degli anni Settanta, estate: Barbara è una dottoressa trasferita per motivi disciplinari da Berlino in un piccolo ospedale alla periferia Est della Repubblica Democratica Tedesca. Il compagno, che già vive e lavora nell’Ovest, sta organizzando la sua fuga oltre la cortina di ferro. Nell’attesa, Barbara si appassiona alle vicende di quanti frequentano l’ospedale, legandosi a un giovane medico con una relazione che ben presto trascende i confini professionali. Quando si presenta l’opportunità di fuggire, Barbara deve decidere se partire o restare.
Il trailer ufficiale del film.
Il film di Petzold ha vinto l’Orso d’argento alla 62. Berlinale lo scorso febbraio, uscendo quasi immediatamente nelle sale tedesche (inizio marzo) e in quelle francesi (inizio maggio), per arrivare nel Regno Unito a fine settembre. Un amico parigino appassionato di letteratura più che di cinema mi aveva consigliato di vederlo – i suoi consigli sono rari e per questo preziosi; fortunatamente, la politica distributiva delle sale d’essai in centro a Londra mi ha concesso una simile opportunità.
Barbara è uno dei pochi film che mi hanno colpito negli ultimi mesi, ed è uno dei rari casi in cui finzione e ricostruzione storica si combinano in una vera e propria opera d’arte. Autore della sceneggiatura insieme a Harun Farocki, Petzold esplora con rigore un periodo controverso della storia tedesca attraverso il racconto di vicende intime e private, avvicinando la vita dei personaggi sullo schermo alla nostra – e non è un caso che la famiglia del regista abbia vissuto la stessa esperienza di persecuzioni e fughe, come racconta in un’intervista con James Woods.
Un lavoro impreziosito dalla scelta di far ruotare queste storie attorno a un personaggio femminile forte e complesso. Nina Hoss (musa di Christian Petzold, pressoché sconosciuta fuori dalla Germania) impersona Barbara con talento e misura, investendo il personaggio con dilemmi morali che sono pubblici e privati a un tempo: la fedeltà verso gli uomini che ama diventa così una metafora della fedeltà verso il paese in cui vive e verso i valori in cui crede, un mosaico complesso in cui “fare la cosa giusta” non è affatto semplice o immediato.
Petzold è un regista capace, e riesce a calare una storia potenzialmente statica in un genere che si avvicina al thriller, pieno di tensione narrativa sotterranea e assai sofisticata.Tensione che si esprime in un montaggio straordinariamente dosato ed efficace, nei colori saturi e caldi per la fotografia – in aperto contrappunto con il clima gelido e scostante delle relazioni umane dipinte nel film – e nella scelta di radicare il racconto nella realtà concreta di ambienti paesaggi oggetti, così come vissuti dai protagonisti.
Sui titoli di coda At last, I am free degli Chic (sic) chiude la storia di Barbara. Una scelta solo apparentemente fuori luogo, che ha il compito di riportare in una dimensione presente – e perciò rendere universali – le riflessioni su libertà, doveri e responsabilità esplorate nel film con cui ognuno di noi, prima o poi, deve confrontarsi.