Le cinéma autrementBerberian Sound Studio, il nuovo horror all’inglese parla italiano

Riuscirà a raggiungere gli schermi nostrani l'omaggio di Peter Strickland al genere che ha reso celebre Dario Argento? Date le mie esigue finanze, da quando mi sono trasferita a Londra ho preso l’...

Riuscirà a raggiungere gli schermi nostrani l’omaggio di Peter Strickland al genere che ha reso celebre Dario Argento?

Date le mie esigue finanze, da quando mi sono trasferita a Londra ho preso l’abitudine antisociale di andare al cinema di giorno, ai matinée delle undici o dell’una il cui costo varia tra le 2 e le 6 sterline – quasi sempre si può portare cibo dentro la sala, e che c’è di meglio che pranzare nel buio? Sì, perché un biglietto senza riduzioni per uno spettacolo serale di prima visione può arrivare a costare fino a 15 sterline, che sono quasi 20 euro.

Questa volta è toccato a Berberian Sound Studio, uscito nel Regno Unito il 31 agosto e proiettato in seconda visione al Prince Charles Cinema. Seconda visione per un’opera seconda, perché il regista anglo-greco Peter Strickland s’era già fatto notare con un esordio da Orso d’argento a Berlino 2009, il dramma ambientato nell’Est Europa Katalin Varga – ahimé snobbato dalla distribuzione italiana.

La storia è questa: alla fine degli anni Settanta, il timido e impacciato tecnico del suono Gilderoy (un magnifico Toby Jones) si trasferisce in Italia dalla ridente campagna inglese di Dorking per lavorare alla post produzione dell’horror Vortice Equestre, ultimo capolavoro del regista Santini. Passare dai documentari su flora e fauna britannici alle fantasie sataniste di un genere cinematografico in ascesa non è affatto semplice, tanto che Gilderoy rischierà di perdere il lume della ragione. Nonostante quasi nessuno dei film di Dario Argento sia mai stato distribuito nel Regno Unito, i riferimenti alla sua cinematografia balzano all’occhio anche del meno esperto fin dai (finti) titoli di testa di Vortice Equestre, omaggio musicale dichiarato a Suspiria.

Il trailer originale del film.

In fila per il biglietto, noto con preoccupazione crescente di essere l’unica donna, circondata da una decina di signori tra i quaranta e i sessanta, con quell’aria sdrucita e allampanata tipica degli intellettuali londinesi. Sarà l’orario insolito? Sarà la trama quanto meno curiosa? Trattandosi di un prodotto locale, Berberian Sound Studio ha beneficiato di finanziamenti pubblici (UK Film Council e National Lottery), pubblicità ai limiti dell’assillante (c’è stato un momento in cui sembrava che i cinema londinesi non proiettassero altro) e recensioni assai lusinghiere, con Peter Bradshaw che sul Guardian gli conferisce cinque stelle su cinque gridando al nuovo fenomeno cinematografico britannico.

Non ho dati per commentare il successo del film in termini di incassi né per analizzare il tipo di pubblico che si è recato a vederlo, escluso ovviamente il piccolo e poco significativo campione in cui mi sono trovata – spettatori da seconda visione di un lunedì altrimenti lavorativo. Dal canto mio, ho trovato Berberian Sound Studio un film straordinariamente complesso, capace di interessare e divertire senza fare mostra delle proprie qualità con eccessi intellettualoidi – tranne forse per il titolo, un tributo alla studiosa e interprete di musica sperimentale Cathy Berberian, sconosciuta al pubblico non specializzato. Non solo, ma in quanto italiana (non particolarmente esperta di horror all’italiana, lo ammetto) che da un po’ di tempo a questa parte cerca di vivere nel Regno Unito, credo di trovarmi in una posizione privilegiata per apprezzarne le diverse qualità.

Ci sono molte letture possibili per un film come Berberian Sound Studio: un mockumentary sul lavoro dei tecnici del suono, ad oggi il meno meccanizzato e computerizzato tra tutti i mestieri del cinema; un omaggio all’importanza del suono e della colonna sonora nel cinema, ad oggi uno degli aspetti meno valorizzati del film come opera d’arte; una rivisitazione, in chiave critica e ironica più che meramente celebrativa, della pratica del doppiaggio e del genere horror – entrambi declinati “all’italiana”.

Sarà perché esco dalla lettura di un classico dell’antropologia inglese, che consiglio a chiunque abbia mezza idea di trasferirsi nella perfida Albione, ma la lettura che mi piace di più è quella cultural-antropologica. È dai tempi di Shakespeare che i film inglesi “dislocano” in Italia tutte le esperienze imbarazzanti che la vita può riservare – il celebre “imbarazzo all’inglese” che spazia dal lutto per una persona cara alle dichiarazioni d’amore non corrisposte. Non solo, ma l’Italia in quanto meta esotica è da sempre identificata (in termini di biechi clichés, ma di quelli che contengono un fondo di verità) con i peccati di lussuria, promiscuità e gola – così diversa dalle placide, innocenti campagne che circondano Dorking.

Se interpretata in questa chiave, la trama apparentemente insolita di Berberian Sound Studio diventa molto meno curiosa: il finto film horror e il lavoro che gravita attorno ad esso non è che uno strumento artistico (eccessivo, ma efficace) per esplorare due culture assai distanti – quella italiana rappresentata da regista, produttore, doppiatrici, e quella inglese del (povero) Gilderoy, vittima inconsapevole di un gioco più grande di lui. Visto con occhi italiani poi, il film dice molto di più sugli inglesi e sul loro modo di vedere gli abitanti del Bel Paese (ai tempi di Shakespeare, ma anche ai nostri), con personaggi maschili che rasentano la satiriasi e personaggi femminili a limiti dell’oggetto sessuale, che quasi esplodono nelle camicette attillate.

Mi domando da dove gli vengano certe idee, eh.

X