Stasera (stanotte in Italia) avrà luogo l’ultimo dibattito televisivo tra Obama e Romney nella campagna elettorale presidenziale. Si tratta di un appuntamento ormai tradizionale, che dalla campagna del 1976 è divenuto regolare e quasi “istituzionale”, visto che non manca mai di catalizzare l’attenzione degli elettori statunitensi e dell’opinione pubblica internazionale.
In questi casi, però, la memoria va immediatamente al primo confronto del genere ripreso dalle telecamere televisive, quello tra i candidati alla presidenza Richard Nixon e John F. Kennedy, svolto il 26 settembre 1960.
Si trattò di un esperimento ancora chiaramente tutto da rodare, a cui uno dei candidati giunse poco preparato e forse poco consapevole dei meccanismi delle dinamiche del mezzo televisivo, anche se probabilmente, visto l’esiguo scarto di voti che poi avrebbe caratterizzato la tornata elettorale del novembre 1960, non bisogna sopravvalutare l’impatto del disagio di Nixon percepito dagli oltre sessanta milioni di spettatori.
Una curiosità interessante, che oggi pochi ricordano ma che nel 1960 era ben presente all’opinione pubblica e che può aiutarci a capire perché l’esperimento del botta-e-risposta televisivo per alcuni anni non ebbe seguito, riguarda però la nascita dell’idea. In questo caso, infatti, fu un network televisivo, la NBC, a proporre ai vertici dei due partiti di utilizzare la programmazione di prima serata per un evento di sicuro impatto sul pubblico (e di sicuro) ascolto, al fine di sostituire una serie di programmi di successo che era stato necessario sopprimere l’anno precedente: i quiz shows.
Proprio nel 1959, infatti, si era conclusa una inchiesta del Congresso su alcune irregolarità nello svolgimento dei più popolari quiz televisivi del prime time americano, all’epoca il modello di programma sicuramente di maggior successo in tutto il mondo occidentale (basti ricordare il ruolo di traino svolto per il mezzo televisivo in Italia da Lascia o raddoppia?, adattamento di The $64,000 Question, uno dei programmi coinvolti nello scandalo). In pratica, la produzione di quasi tutti i programmi più seguiti determinava la permanenza o meno dei concorrenti sulla base della loro capacità di garantire un pubblico quantitativamente numeroso e di “bucare lo schermo” con un impatto immediato, predeterminando le risposte alle domande.
Come ben sa chi ha visto il bel film di Robert Redford Quiz Show, resa drammaturgica del caso più eclatante nella memoria collettiva americana, si riconobbe subito che l’intervento nell’adattamento dei risultati non poteva avere rilevanza penale diretta. “Tutti sanno che il mago non sega in metà la donna”, era una delle frasi dette dal produttore che si sarebbe assunto l’intera responsabilità. Non vi era effettiva frode, perché nessuna delle figure coinvolte subiva un danno: i concorrenti guadagnavano, gli sponsor ottenevano pubblicità, gli ascolti del network crescevano e il pubblico si divertiva.
Ma la questione sul piano culturale era più complessa. La cultura popolare americana di guerra fredda, rispetto a quella decisamente più spregiudicata degli anni Venti e Trenta, aveva visto una decisa svolta in senso conservatore nelle abitudini familiari e nelle aspettative sociali: l’insicurezza del mondo che circondava gli USA era sublimata ed esorcizzata dalla ricerca di una vita familiare ordinata e tranquilla, dal rifiuto del disordine sociale, dal ritorno dei valori e dei comportamenti tradizionali, dalla ricerca della dimensione del controllabile e del conosciuto nel proprio quotidiano, quasi a contrapporsi all’impotenza nella soluzione delle incombenti tensioni internazionali e dei rischi di guerra atomica. I mezzi di comunicazione di massa e soprattutto il medium principe di questo periodo, la TV, giocavano un ruolo pedagogico fondamentale da questo punto di vista. I personaggi televisivi erano percepiti, e ne erano in generale consapevoli, come primi responsabili per il mantenimento della tranquillità individuale e sociale attraverso il loro insegnamento e il loro esempio. In questo senso erano pienamente giustificati da gran parte dell’opinione pubblica, e soprattutto dai maggiori fruitori dei mass media, gli ossessivi controlli governativi sulla produzione televisiva, cinematografica e radiofonica, con una concezione che esaltava al massimo livello il ruolo di “servizio pubblico” dei mezzi di comunicazione più invadenti e capillari, e faceva trattare i loro protagonisti alla stregua di pubblici ufficiali con linee di condotta ben chiare. Un “tradimento” come quello perpetrato dalle produzioni dei quiz shows era, in questo contesto, semplicemente inconcepibile, e infatti, pur senza dirette conseugenze penali decretò la fine della popolarità del genere per decenni, e rese necessaria una stretta autoregolamentazione delle reti televisive, che rese i giochi decisamente meno attraenti e li spostò in altre fascie orarie di minor pregio.
Il dibattito Nixon-Kennedy, insomma, rappresentava quasi simbolicamente agli occhi dei contemporanei una politica nazionale che entrava nel cuore dello show business quasi dalla porta di servizio, in sostituzione di un evento di costume che in precedenza aveva garantito un successo di pubblico decisamente maggiore. L’approccio dilettantesco di Nixon al nuovo e potente strumento di comunicazione segnava quasi fisicamente la distanza dallo strumento di informazione simbolo della contemporaneità da parte di una politica che ancora si era formata e viveva altrove.
Soprattutto, a detta di molti osservatori, il confronto tra i candidati era entrato in televisione assumendone, e quasi subendone, i linguaggi e le modalità espressive. Come ha notato il saggista Daniel Boorstin in The Image; or, What Happened to the American Dream, del 1962, il formato del confronto era quello di brevi turni di domande e risposte tra due avversari, che “riduceva i grandi temi della politica nazionale a una dimensione da trivia“, quasi facendo rientrare dalla finestra quel tipo di competizione, il quiz, che gli spettatori adoravano e che non era più possibile riproporre in versione “genuina”.
Da allora, molta acqua è passata sotto i ponti, e non solo negli Stati Uniti la politica ha saputo (come è giusto) “prendere le misure” del mezzo televisivo, senza più apparire un pesce fuor d’acqua. Eppure, tornare su una riflessione del genere potrebbe essere utile, in un momento in cui il confronto “all’americana” ci sembra l’unico modo per mettere a paragone le posizioni dei candidati, e in cui l’informazione politica vive esclusivamente di interviste a domande secche, veri quiz shows tra avversari a distanza, del tutto dimentica di una dimensione di approfondimento che invece farebbe bene a tutto il sistema.