Hospital, Boston, from Dorothea Lynch and Eugene Richards, Exploding into Life – 1986 – Photo by Eugene Richards
La morte distrugge un uomo, l’idea della morte lo salva. Edward Morgan Forster
Ringrazio Chiara Bardelli Nonino che mi ha fatto leggere la sua tesi di Laurea in Filosofia Estetica da cui nasce questo post.
La Tesi di Chiara affronta il delicato tema della fotografia post mortem, ne sono esistiti diversi tipi, e in questa sede non mi interessa approfondire le tipologie che hanno a che fare con scopi medici, politici, giornalistici o giuridici, quello che vorrei invece discutere con voi è la fotografia post mortem domestica, privata, quella che veniva fatta ai propri morti.
Voi la fareste una fotografia a un vostro morto? Un familiare, un amico, qualcuno che amate?
In passato – e fino agli anni ’30 – si usava fotografare i morti, era una pratica abbastanza comune, dall’Europa agli USA al Sud America, pratica che aveva integrato – democratizzandola – la tradizione pittorica di raffigurare personaggi illustri e famosi sul letto di morte.
Post Mortem Photography, Silver Gelatin Print, 1920s-30s, North Carolina, Collezione Paul Frecker
Vi erano diverse tipologie di ritratti post mortem: quelli in cui il cadavere era adagiato delicatamente a letto come se stesse dormendo, oppure il ritratto di famiglia con tutti i familiari più il morto o, ancora più agghiacciante, foto in cui il morto veniva messo in posizioni tali da sembrare vivo, magari seduto su un sedia, e gli occhi venivano disegnati come aperti, in “post-produzione”.
Post Mortem Photography with painted eyes – XIX sec
Albin Mutterer, Post Mortem Portrait of Dr. Petrus, Vienna, 1854
La sola idea di fotografare le spoglie senza vita di un mio caro mi fa contorcere lo stomaco, la mia reazione emotiva è immediata, forte e netta: si tratta di un rituale macabro, morboso e raccapricciante.
Ma quando qualcosa mi provoca delle reazioni emotive così intense sento il bisogno di fare un’ulteriore riflessione, di fare dialogare le viscere con l’intelletto. Soprattutto alla luce del fatto che il ritratto post mortem non è un’usanza del tutto scomparsa, anzi in America esiste un’associazione no profit “Now I Lay me down to sleep” che si occupa di fornire gratuitamente e tempestivamente i servizi di fotografi professionisti per i genitori che abbiano perso un bambino perché nato morto o deceduto poco dopo la nascita.
Jacob Israel Avedon – 1972 – Photo by Richard Avedon
Questa pratica per quanto concerne le morti premature è consigliata e vista come terapeutica da molti psicologi per elaborare il lutto e fornire in futuro una testimonianza insindacabile che provi l’esistenza seppur breve del bambino.
Il caso della fotografia postuma di bambini appena nati è ancora diverso dai ritratti post mortem in generale, sopratutto per chi come me è agnostico.
From Dorothea Lynch and Eugene Richards, Exploding into Life – 1986 – Photo by Eugene Richards
Vi sono delle analogie fra morte e fotografia così potenti da rendere il loro abbinamento un catalizzatore esponenziale di significati.
Cosa è un cadavere? Non è più la persona, ma un’indice che a essa rimanda, una “eco visiva di ciò che è stato”: un’immagine.
Anche la fotografia è un’indice, un’impronta che testimonia che qualcosa è stato – e non è più, l’immagine presente di un’assenza, il “cadavere di un’esperienza”, una magia che ferma il tempo in un’infinito istante.
Susan Sontag – 2004 – Photo by Annie Leibovitz
Roland Barthes parlava della fotografia come della “morte al futuro”: affinché qualcosa resti impresso in una fotografia, questo qualcosa deve essere stato davanti alla macchina fotografica, (la fotografia è quindi un “certificato di presenza”), ma dato lo scorrere del tempo nel momento immediatamente successivo allo scatto il qualcosa fotografato non potrà mai essere esattamente uguale al se stesso di un attimo prima, arriverà poi un momento in cui quel qualcosa eventualmente non sarà più del tutto.
La fotografia è dunque contemporaneamente realtà e passato, esattamente come un cadavere.
“My Mom’s butterfly tattoo” – Photo By Terry Richardson
E la fotografia di un cadavere? Che valenza ha? A cosa rimanda l’immagine di un’immagine, il fantasma di un fantasma? La morte della morte?
È qualcosa che aiuta nell’elaborazione del lutto o qualcosa cui si dà il compito di elaborare al posto nostro, rimedio o rimozione?
Un tratto comune alle moderne società post capitaliste è di avere rimosso la morte e la malattia dall’esperienza comune: la morte c’è e si vede tutti i giorni nei fatti di cronaca, nelle guerre lontane, ma riguarda “altri”, non “noi”.
“Me and Dad – 25th Aug, 2009” – Dad project – Photo by Briony Campbell
I nostri malati – quelli per intenderci che ci ricordano davvero la nostra finitezza – li mettiamo in ospedale, li allontaniamo per questioni igieniche e sempre per questioni igieniche li facciamo morire in ospedale e non a casa; se poi per caso qualcuno muore in casa, il cadavere viene igienicamente portato via subito. Abbiamo sterilizzato la morte ma non potremo mai immunizzarci da essa.
Julie end – sept 2010 – The Julie Project – Photo by Darcy Padilla
Eppure si godrebbe tanto di più della vita se fossimo davvero capaci di viverla con la consapevolezza della morte, “L’Essere per la morte” di Heidegger: non ci si può porre la questione dell’essere senza porsi quella della morte, che è poi ciò che restituisce senso all’esistenza.
Winter Journey -1991- Photo by Nobuyoshi Araki
Fotografare la morte allora cosa è? Una presa di coscienza o una sfida? Un sintomo? Un incidente di percorso nella storia della fotografia? Un incidente morale? Una volgarizzazione/borghesizzazione di tradizioni arcaiche? Non tollero la morte e allora la fotografo? A tutte queste domande è difficile dare risposta. Una cosa è certa, la mia reazione emotiva è diversa quando è un’artista a fotografare un suo morto.
“The Home Funeral” – 1990 – Photo by Shelby Lee Adams
Penso al lavoro di Richard Avedon sul padre morente negli anni ’70, “My Father” del 1988 di Sally Mann, “The Dad Project” del 2009 di Briony Campbell,“Winter Journey” 1989-1990 di Nobuyoshi Araki sulla malattia e morte della moglie, anche Eugene Richards ha fotografato dal 1978 al 1985 la lotta contro il cancro e la morte della moglie Dorothea Lynch e Annie Leibovitz ha documentato malattia e morte della sua compagna Susan Sontag.
“The last picture I took of my Mom”. – Photo by Terry Richardson
Recentemente Terry Richardson ha postato sul suo blog le foto della madre morente. Includerei nelle citazioni anche “The Julie Project” di Darcy Padilla per il grado di intimità che Darcy aveva stabilito con Julie – tossicodipendente, malata di AIDS – nel corso degli anni.
Winter Journey -1991- Photo by Nobuyoshi Araki
Come mai quando a fotografare la morte domestica sono gli artisti il giudizio tende a essere diverso? Forse perché ci aspettiamo un livello di elaborazione e approfondimento differente da parte di un’artista che sceglie di affrontare un tema simile, ma anche da noi spettatori chiamati a fruirne, una messa in ascolto diversa da quella che potremmo avere guardando un ritratto postumo scattato con l’intenzione di restare privato.
La fotografia in questo caso diventa una lente di ingrandimento su un soggetto che genera conflitto interiore.
Si tratta di un atteggiamento ipocrita (una mera questione estetica, o di etichette) o davvero il fatto stesso che un artista decida di occuparsi di un argomento scomodo garantisce che lo faccia con serietà e spessore, che sia – come infatti si dice – una – ricerca – artistica?