Delude la parodia dedicata da Tim Burton alla celebre “creatura” precursore di buona parte del suo cinema, nata dalla penna di Mary Shelley. Nelle sale italiane da gennaio, ecco in anteprima la recensione.
Francamente, non so più cosa pensare di Tim Burton.
Insomma, da un lato è il regista di film straordinari come Batman (1989), Batman il ritorno (1993) e Big Fish (2003), nonché il creativo responsabile dei mondi fantastici di The Nightmare before Christmas (1993) e La sposa cadavere (2004). Dall’altro, è la stessa mente che sta dietro operazioni discutibili come i remake de Il pianeta delle scimmie (2001), Charlie e la fabbrica del cioccolato (2006) e Alice nel paese delle meraviglie (2008).
Genio discontinuo? Eterno sopravvalutato? Talento vero, ma troppo spesso condizionato dalle richieste irragionevoli delle majors?
Domande come queste non trovano risposta, neppure dopo la visione di Frankenweenie. Prima europea al London Film Festival, l’ultima animazione in stop-motion di Burton è uscita lo scorso 17 ottobre nelle sale della capitale, dove il regista è ormai di casa con la compagna Helena Bonham Carter – attrice inglese di talento ma soprattutto di nobilissima schiatta. L’arrivo in Italia è previsto per gennaio 2013.
Prodotto dalla Disney (che per l’occasione trasforma il logo del castello di Cenerentola in un maniero gotico), Frankenweenie non è esattamente una novità: il film è la versione estesa e animata di un omonimo corto girato da Burton nel 1984, protagoniste tra gli altri Shelley Duvall e Sofia Coppola (in uno dei suoi primi ruoli della carriera). A differenza di questo Frankenweenie, accolto in pompa magna al Festival, il suo predecessore non ebbe lo stesso successo: classificato dalla stessa Disney (ironia della sorte) come inadatto per i minori di 14 anni, il film non venne mai distribuito nei cinema, raggiungendo il grande pubblico soltanto più di dieci anni dopo come contenuto speciale del DVD di The Nightmare before Christmas.
Victor Frankenstein è un ragazzino mingherlino e solitario, appassionato di horror e con un unico amico, il cagnolino Sparky (in inglese, letteralmente, “scintilloso”) fino a quando quest’ultimo muore investito da un’auto. Ispirato dalle lezioni appassionanti di scienza del prof. Ryzurski, Victor cercherà di riportarlo in vita sfruttando le tempeste elettriche che si abbattono di frequente su New Holland, la sonnolenta cittadina statunitense in cui vive. La resurrezione di Sparky seminerà il panico tra gli adulti e la gelosia tra i bambini, che tenteranno di replicare l’esperimento di Victor sui loro cuccioli trapassati.
Il trailer originale del film.
Al suo sedicesimo film, dopo nove cortometraggi, un libro e centinaia di disegni, Tim Burton sembra arrivato al capolinea creativo. Che è un’arma a doppio taglio: si può interpretare in termini di punto di massimo sviluppo, come fa Tim Adams intervistando Burton per l’Observer: “In un certo senso, Frankenweenie è il film che Burton ha girato per tutta la sua vita. Una storia gentile ed emozionante, girata in stop-motion in uno splendido bianco e nero, su un ragazzino che riporta il suo amato cane in vita nei sobborghi di una provincia americana noiosa e annoiata.”
Oppure, si può leggere in termini di stallo creativo, come fa un anonimo commentatore di una delle recensioni di Frankenweenie: “Tim Burton: uno straordinario production designer [il responsabile dello “stile visivo” di un film, che influenza le scelte creative per scenografia, costumi, fotografia, nda] i cui eccessi non riescono a nascondere il fatto che non abbia più nulla da dire.”
Personalmente, dopo una serie di fallimenti o pseudotali, abbraccio questa seconda ipotesi. Partiamo proprio da Frankenweenie: la storia di Sparky e Victor si colloca in quel tipo di animazione per l’infanzia che strizzano l’occhio anche ai genitori con citazioni cult e parodie di generi per adulti (horror, sci-fi, azione), sulla scia di Shrek (2001) e tutti gli epigoni che seguirono.
Frankenweenie sembra però costruito per scontentare sia i genitori, sia i figli: la storia è troppo breve e stiracchiata per un lungometraggio – sebbene Philip French affermi il contrario – con aspetti della trama inesplorati che per incongruenze e superficialità rischiano di lasciare indifferenti i maggiori di cinque anni. D’altro canto, c’è da chiedersi quanto un bambino di quattro anni possa apprezzare il bianco e nero e il tratto disturbante dei personaggi di Tim Burton.
Questa indecisione stilistica ha il suo corrispettivo sostanziale non solo in una trama annacquata, ma in una più profonda mancanza di senso della medesima – e per spiegarmi meglio prenderò in prestito l’arguzia critica di Peter Bradshaw. Frankenweenie vuol essere una parodia di Frankenstein, ma nel film di Burton rimane poco del mostro inventato da Mary Shelley, prodotto dalla morbosa curiosità di uno scienziato, frutto dell’assemblaggio di parti umane differenti e presto ripudiato dal suo stesso creatore. Se nel 1984 la Disney ritenne inadatto il soggetto in toto, nel 2012 si adegua alle richieste di un pubblico infantile ormai smaliziato: accetta Frankenweenie, ma lo “disinnesca” dall’interno eliminandone gli elementi più disturbanti.
Non è dato sapere in che misura le scelte di produzione abbiano influenzato Burton in fase di sceneggiatura, ma è certo che Frankenweenie somiglia pericolosamente per certi versi alla versione burtoniana dei romanzi di Lewis Carroll. In quest’ultima, il principio onirico e anticonsequenziale che governa del paese delle meraviglie è rimpiazzato da una specie di missione contro il male, trasformando i vagabondaggi esilaranti di Alice nella caccia al dragone di un Harry Potter in gonnella.
In questa penuria di idee e stile, tutto il corollario di citazioni cinematografiche più o meno chiare – da Frankenstein Junior a Vincent Price, passando per un Dracula televisivo di Christopher Lee – diventa quasi un peso per il povero spettatore. Per l’ennesima volta, e con molte meno risate (eccezion fatta per gli esilaranti monologhi del Prof. Ryzurski), sullo schermo scorre l’ormai nota poetica di Tim Burton: i “diversi” solitari, deformi ma non per questo infelici, e il loro incontro / scontro con il mondo dei “normali.” Un bagaglio di ossessioni messe in scena stancamente, che in Frankenweenie cercano un’impossibile riconciliazione.