Una figlia come teGravidanza, quadro uno: il mostro delle nausee

Senza sguardi in cagnesco né mortificazioni sono riuscita a lavorare fino all’ultimo e ieri ho cominciato il mio congedo di maternità. Ora le mie giornate sono scandite dai seguenti appuntamenti: n...

Senza sguardi in cagnesco né mortificazioni sono riuscita a lavorare fino all’ultimo e ieri ho cominciato il mio congedo di maternità. Ora le mie giornate sono scandite dai seguenti appuntamenti: nuotate in piscina, riposini sul divano, riposini sul letto, colazioni, pranzi, cene e varie merende. Un ritmo forsennato che, forse non senza un po’ d’invidia, in molti mi ricordano durerà assai poco: “Approfittane, perché non dormirai per i prossimi due anni”. Alla faccia degli auguri!

Lavorare col pancione in crescita è stata un’esperienza da alti e bassi. Tipo che se ti senti bene va alla grande, riesci a pensare e per un po’ anche a dimenticarti delle ossessioni sulla gravidanza, la maternità, il parto. Il problema sono i bassi: leggasi nausee, giramenti di testa, goffa smemoratezza. E attacchi di panico.

Ero nella fase tarallini pugliesi. Sì perché la mia gravidanza, dal punto di vista alimentare, è stata un po’ alla Picasso: cioè piena di “periodi”. C’è stato quello della pasta ripiena (che mangiavo a pranzo e cena), dello yogurt magro, delle noci, delle arachidi. Il primissimo fu quello del succo di pomodoro e del galbanino, durato poco perché poi ho cominciato a vomitare e così ho ancora in dispensa tre confezioni da sei di succo di pomodoro Yoga. Mr P. (non) ne è molto contento.

La fase tarallini risale più o meno a maggio, il mese in cui forse ho preso più chili (strana coincidenza?). Ovunque andassi mi portavo dietro un saccoccetto di taralli all’olio d’oliva, di quelli piccolini da aperitivo. Quando dico ovunque intendo che li mangiavo in macchina verso la redazione, alla scrivania, prima di andare a cena con amici, dopo cena, di notte.

Sempre.

Tranne quella volta che sono dovuta entrare di corsa in riunione. Cinque o sei persone tra cui un cliente, si comincia a parlare, e io realizzo che i tarallini sono rimasti sulla mia scrivania.

Panico.

Comincio a sudare, caldo, freddo. Sbottono la giacca, poi la levo. La conversazione ovviamente non ha nulla a che fare con i generi alimentari ma io vedo cracker e grissini dappertutto. Non riesco a pensare ad altro, non riesco a non pensare che mi sentirò male, mi salirà la nausea e dovrò scappare in bagno inciampando sulla porta che non si chiude bene.

E poi ho sete. Tanta sete. Ci deve essere un problema con l’areazione e l’umidificazione della stanza perché mi si è infelpata la lingua e ora mi sembra di avere in bocca una patata piena di buccia appena tolta dalla brace.

Oddio. Morirò qui oggi, di acido gastrico e arsura. Tra spasmi volgari e schiuma perché l’avevo detto che faceva troppo caldo dentro questa stanza, possibile che non se ne sia accorto nessuno?

Poi l’idea. “Il piano editoriale prevede blablabla…”, dice qualcuno. Io schizzo in piedi, srotolo la felpa che ho in bocca e mi lancio in un altruistico: “Sì ne avevo mandate in stampa un paio di copie, dovrebbero essere pronte, vado a prenderle”. Fuga da Meetingtraz.

La stampante, ovviamente, non era stata neanche lanciata. Ma in due minuti sono riuscita a riempirmi il palmo di tarallini e a bere un bicchiere d’acqua, in modalità festa-delle-medie-vado-via-con-un-bicchiere-di-cocacola-e-una-manciata-di-patatine. E poi sono rientrata in riunione.

Pulitina veloce alle mani, distribuzione degli stampati. Crisi superata, insomma.

Fa pure un po’ freddo qui, ho pensato, mentre mi rimettevo la giacca.

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