Il conferimento del Nobel per la letteratura allo scrittore cinese Mo Yan non poteva certo passare tra l’indifferenza. Ad essere insignito della prestigiosa onorificenza è un intellettuale che, sebbene non possa essere ritenuto organico al potere – basterebbe per questo prendersi la briga di leggere le sue opere da “Sorgo rosso” fino a “Le sei reincarnazioni di Ximen Nao” – è rimasto nel suo Paese e resta un iscritto al Partito comunista e vice-presidente dell’Associazione degli scrittori cinesi. Insomma, non si tratta di un “dissidente”, membro cioè di quella particolare categoria dalla quale un interessato Occidente pesca con piacere – rigorosamente a geometria politica variabile – i vincitori del premio. E proprio i tanto coccolati dissidenti cinesi sono stati i primi a protestare. Wei Jingsheng, da anni residente negli Stati Uniti, ha parlato di una “mossa fatta esclusivamente per compiacere il governo di Pechino”, mentre il più noto Ai Wei Wei ho sostenuto che si tratta di “un insulto all’umanità e alla letteratura” e di una scelta vergognosa che “non è all’altezza della qualità del premio negli anni precedenti”.
Risulta strano che l’accusa di decisione politica rivolta alla Commissione valga solo nel caso di Mo Yan. Questo metro di giudizio non dovrebbe anche essere esteso ai Nobel per la pace dati al Dalai Lama o a Liu Xiaobo? In quei casi non si trattava forse di una “mossa fatta esclusivamente per (non) compiacere il governo di Pechino”?
La posizione è molto chiara: alcuni premi sono riservati ad alcuni eletti e solo ad alcuni cinesi. Uno scrittore che resta in Cina e racconta attraverso i suoi romanzi – tutt’altro che sterili esercizi di propaganda – le umiliazioni, le tragedie e i successi del suo Paese deve esserne escluso per principio.
Posizioni e atteggiamenti che sorprendono? Certamente no. E ne abbiamo avuto dimostrazione nelle settimane scorse con la presa di posizione di Ai Wei Wei sulle proteste in Cina per la “nazionalizzazione” delle isole Diaoyu da parte del Giappone. Allora il celebre architetto aveva parlato di operazioni non spontanee e coordinate dal Partito comunista che, come un esperto burattinaio, ha mobilitato cittadini “ingenui”. L’unica vera manifestazione popolare resta quella di Tiananmen del 1989.
Fino ad allora, dunque, per il dissidente ai cinesi era vietato difendere la propria patria se questa è governata da un partito comunista, ora, in aggiunta, è pure fatto divieto ad uno scrittore vincere il Nobel se è iscritto al partito comunista e non è riparato all’estero.
Ma le reazioni peggiori, di chiaro stampo razzista, si sono lette sulla stampa nostrana, sia della sinistra liberal che della destra. Bastano solo due esempi. Sull’Huffington Post, della celebratissima Lucia Annunziata e afferente al gruppo de L’Espresso, si è scritto – l’articolo è significativamente intitolato “Premio Nobel per la letteratura a Mo Yan. E chi cavolo è?” – che “sarebbe intellettualmente più onesto, e realisticamente modesto, che una delle più autorevoli istituzioni culturali occidentali lavorasse a ricordarci chi siamo e che cosa, al nostro meglio, potremmo essere. I cinesi sono più di un miliardo, questo è vero. Sono più di un miliardo e, tanti quanti sono, se ne fregano, giustamente, dei nostri romanzi”.
Su Il Giornale possiamo, invece, leggere che “con questo premio la Cina fa pace con il Nobel: lo scrittore Mo Yan risiede in Cina, non è un dissidente. Se prende un premio, vuol dire, per il mondo, che all’Accademia di Svezia va bene la Cina così com’è? Lo scrittore Mo Yan è anche Mo Yan soldato, Mo Yan politico, Mo Yan cinese di una Cina totalitaria? Difficile che un intellettuale di questo calibro, che pur avendo divorato «troppo tardi» Calvino e Faulkner e García Márquez, pure, nonostante la censura, li ha divorati e che è sceso negli inferi di privazioni del proprio Paese come nessun altro ha saputo fare, scriva senza sapere che la fiction, oggi, ha più potere che in qualsiasi altro momento storico. Il potere di cambiare la realtà e non solo di farsene cambiare” (1).
Insomma, il premio Nobel per la letteratura deve essere – come se già non lo fosse in gran parte – esclusivamente dedicato alla celebrazione della cultura occidentale – della sua naturale superiorità? – e del suo più geloso autocompiacimento. A che pro riconoscere la grandezza letteraria di autori cinesi che neppure propagandano – come un Liu Xiaobo – la necessità di una nuova cura di colonialismo liberaldemocratico?
Riecco le stesse bieche argomentazioni che hanno colorato di razzismo anti-cinese anche le recenti olimpiadi di Londra.
Allora era bastato che una giovane e brava nuotatrice cinese polverizzasse in piscina le sue avversarie occidentali (statunitensi soprattutto) perché si scatenasse il coro delle denunce sulla Ye Shiwen– colpevole di essere uscita alla grande dal ruolo di comprimaria – e sulla Cina. L’iniziale accusa di doping – un vergognoso Vittorio Zucconi in diretta televisiva aveva parlato, con l’ironia di chi ha la verità (del padrone) in tasca, di uno speciale “tè cinese” – non ha retto alle smentite dei controlli degli organismi preposti ma è stata prontamente sostituita da quella della “mutazione genetica” coltivata segretamente in laboratorio e, successivamente, dal racconto delle tremende sofferenze alle quali il nefasto governo comunista di Pechino sottopone le sue giovani atlete, costrette pure a leggere i giornali di regime.
La Cina e i cinesi che si ostinano a vivere senza chiedere il crollo del proprio governo hanno una grave colpa: quella di raggiungere successi e di essersi lasciati alle spalle una secolare storia di umiliazioni, invasioni e spartizioni ad opera propria di chi oggi la accusa.
Terminiamo con il giudizio del Global Times, quotidiano legato al PCC e solitamente caratterizzato da accesi toni nazionalisti, che ha accolto con favore l’assegnazione del Nobel ad uno scrittore “tradizionale” come Mo Yan in quanto doveroso riconoscimento alla cultura cinese e gesto di riconciliazione in un periodo di tensioni crescenti, dopo che premi Nobel erano stati conferiti a dissidenti come Gao Xingjian e Liu Xiaobo e che a Pechino erano stati interpretati come atti ostili (2).
Noi possiamo più semplicemente ricordare che questo Nobel dimostra come la Cina non sia solamente una potenza politica ed economica in ascesa – e quindi oggetto di un piano di contenimento militare – ma anche una civiltà con una propria letteratura che, a partire dagli inizi del secolo e del suo cammino verso la rinascita nazionale e la rivoluzione, ha saputo aprirsi alle influenze della cultura occidentale. E proprio per questo rivendica il messaggio universale della propria letteratura di fronte al più bieco provincialismo di cui siamo testimoni.
1 Il Giornale, “Nobel a Mo Yan, cinese fedele alla linea”, 12 ottobre 2012.
2 Global Times, “Nobel Prize a win for mainstream values”, 12 ottobre 2012.