Sono andata al cinema armata di pregiudizi. Ricordavo la sensazione fastidiosa che avevo provato guardando The Dreamers, il film di Bernardo Bertolucci che indagava il mondo degli adolescenti, infarcito di stereotipi e di retorica, e con personaggi che era difficile farli più antipatici di così.
Pensavo che un uomo anziano, famoso, che ha vissuto una vita così speciale, non potesse dire niente di verosimile su due ragazzini in crisi e sbandati.
Mi aspettavo un lavoro estetizzante, lontano, perfino irritante.
Temevo che non mi sarebbero piaciuti nemmeno gli attori scelti per interpretare i due protagonisti, intravvisti nel trailer: troppo inquietante lui, troppo bella lei.
Invece Io e te, tratto dal bel racconto di Niccolò Ammaniti, è un film tenerissimo, dolente, partecipe.
E girato con sensibilità e maestria (sempre di Bertolucci si parla, del resto).
Lorenzo (Jacopo Olmo Antinori) ha 14 anni, vive a Roma, è un ragazzino solo e strano, attratto dagli insetti e dai rettili, che cerca l’isolamento, soprattutto se si tratta di stare con i suoi coetanei. Trova l’occasione perfetta quando la sua classe va in settimana bianca: lui racconta alla madre che partirà con i compagni e invece si prepara meticolosamente una goduriosa settimana di totale solitudine nella cantina di casa. Il suo piano salta quando nel nascondiglio arriva all’improvviso Olivia, la sua sorellastra, figlia dello stesso padre ma non della stessa madre. Olivia (Tea Falco) è più grande di Lorenzo, catanese, bellissima. Tossicodipendente. Infelice quanto Lorenzo, anche se in modo diverso.
I due si ritrovano a vivere una settimana insieme là sotto. Lei ne approfitta per provare a disintossicarsi, e saranno dolori. Lui resta lì prigioniero della sua bugia.
A poco a poco, però, imparano a conoscersi, si disvelano l’una all’altro, finiscono con il volersi bene. E forse, o forse no, si salveranno.
È una storia semplice, in fondo, quella di Io e Te. Ma nelle mani, e negli occhi, di Bertolucci, diventa densa e ricchissima. Lorenzo e Olivia sono personaggi meravigliosi: lui, cuore e testa da entomologo, rigido, chiuso e scostante, risulta respingente, nonostante sia poco più che un bambino, o anche proprio per quello, visto che vive quell’età ingrata dove baffetti e brufoli arrivano a deturpare il candore infantile. Poi, lentamente, travolto dal fascino e dalla sensibilità della sorella, Lorenzo si ammorbidisce. E noi con lui. Ma è un processo impercettibile: mentre prima ne eri respinta, a un certo punto ti ritrovi a provare tenerezza ogni volta che lo inquadrano.
Olivia invece è da subito dirompente. Bellissima, sensuale, selvatica, vitale, nonostante la sua ostinata ricerca della morte. Intelligente. Consapevole (“Quando ti fai, niente ti può toccare. Non senti più niente. Ma non è bello. Perché diventi cattiva”). Olivia ha tanti sogni, ma non ha la forza realizzarli. È il ritratto perfetto, addolorato, di un’anima perduta. Per colpa della droga e della sua storia di bambina abbandonata, o che si è vissuta così.
Poi ci sono, nel film, tanti altri elementi che disegnano mondi, alcuni solo accennati (un vissuto incestuoso, per esempio, l’ambigua figura del padre, la metafora dell’armadillo), perché non tutto va spiegato se vuoi arricchire una storia di sfumature.
Anche l’uso della macchina da presa (come quello della colonna sonora) contribuisce a farci entrare nel mondo di Lorenzo: la cinepresa infatti ricalca in modo mai banale il suo sguardo. I palazzi romani visti sempre dal basso, incombenti. I dettagli del corpo di Olivia, osservata come fosse un insetto, indagata, ingrandita, ma sempre con una carica di fascinazione più o meno consapevole.
Il ritorno alla luce dei due ragazzi, infine, è un camminare verso una vita nuova, verso una svolta nata nell’oscurità di quella cantina. Anche se temi che non sarà per entrambi così. E mentre sei lì che guardi Olivia andare via, ti viene alla mente il titolo di un altro libro di Ammaniti, forse il più bello: Ti prendo e ti porto via…