A mente freddaLa questione non è “rottamare”, ma sancire la conclusione dei cicli politici

L'area semantica della "rottamazione", oggi assai praticata da gran parte dell'opinione pubblica senza particolari riflessioni sulle sue origini, entra prepotentemente nel nostro lessico politico n...

L’area semantica della “rottamazione”, oggi assai praticata da gran parte dell’opinione pubblica senza particolari riflessioni sulle sue origini, entra prepotentemente nel nostro lessico politico nella seconda metà del 2010. Considerando quanto il termine sia oggi (nonostante tutti i tentativi del diretto interessato di smarcarsi) incollato addosso a Matteo Renzi, è forse bene rimarcare che la sua origine si deve altrettanto, e forse ancor di più, a Giuseppe Civati, che a suo tempo si era rivelato tra l’alto molto più aggressivo del compagno di lotta sul punto, ma che oggi appare assai meno violentemente ostracizzato dalla classe dirigente del suo partito, probabilmente perché ha deciso, insieme ad altri esponenti democratici un tempo molto più critici con la segreteria, di optare per posizioni in campo sicuramente più miti (anche se assai meno risolutive).

L’immagine dell’esclusione senza tanti complimenti di una classe dirigente sicuramente deludente per il maggior partito della sinistra italiana si è sicuramente rivelata di grande effetto, e ha contribuito a dare ai creatori della metafora della “rottamazione” una grande visibilità e popolarità. Molto spesso, però, man mano che uno degli artefici della forte immagine (a differenza, forse, dell’altro) ha dimostrato di non scherzare nella sua richiesta di cambiamento radicale degli orientamenti del partito, è cresciuta la tendenza a leggere nel termine una punta di violenza gratuita.

Naturalmente, quando i giornalisti, e quindi personale professionalmente esperto di comunicazione, trovano tutti questi sovrasensi a uno slogan elaborato essenzialmente per facilitare loro il lavoro di creare titoli ad effetto, non ci si trova di fronte all’ingenua convinzione che lo slogan sia il programma, ma nella velata volontà di nascondere sotto il vocabolo coniato sbrigativamente un’esigenza che, in ogni caso, non può essere sottovalutata, e che deve essere declinata in tutta la sua complessità. Senza questo sforzo, difficilmente si può comprendere perché l’uso del concetto di “rottamare” si sia mostrato, prima che violento e offensivo come qualcuno vuole far credere, così profondamente efficace nel mobilitare una quota probabilmente imprevedibile di elettorato. Mi sembra quindi opportuno fare qualche considerazione su alcuni elementi sottesi a questa esigenza che Renzi, Civati (finché ha ritenuto opportuno farlo) e altri hanno saputo cogliere con questa forza. E per farlo non posso che partire dalle parole che, quando avevo 17 anni, hanno forse per la prima volta seriamente ispirato le mie convinzioni politiche e sociali, le parole che tuttora considero l’espressione più alta della cultura di sinistra in Italia nell’ultimo trentennio:

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Così, nel febbraio del 1997, Massimo D’Alema prendeva posizione sulla necessità di rivedere profondamente il rapporto tra una seria sinistra di governo e una cultura sindacale che si mostrava, già allora, conservatrice negli obiettivi quanto ingiustificatamente aggressiva nei toni. La necessità di presidere “da sinistra” a una riforma del mercato del lavoro e del sistema di assistenza sociale votata all’efficienza di sistema, al suppporto alla qualità crescente del capitale umano e alla riproposizione di un’autentica eguaglianza nelle condizioni di accesso alle risorse tra individui, gruppi sociali e generazioni rappresentava, e giustamente il segretario del PDS allora l’aveva intuito, la grande sfida per la sua area politica di elezione, insieme alla necessità di ripensare l’architettura dello stato in senso strutturalmente maggioritario da lui messa in campo con la Commissione bicamerale. Su queste basi avrebbe strutturato la sua esperienza a Palazzo Chigi tra 1998 e 2000, e proprio per concludere con piena legittimazione popolare un’offensiva nei confronti delle resistenze interne della CGIL di Cofferati, ancora più che per rintuzzare i continui e ingiustificati attacchi dell’opposizione sulla sua posizione di presidente del consiglio “non legittimo”, legò il suo mandato di governo ai risultati delle elezioni regionali. Il gioco non gli riuscì, purtroppo, e piuttosto che continuare un ultimo anno di governo sostanzialmente bloccato nella semplice amministrazione degli affari correnti D’Alema scelse, giustamente e onorevolmente, di dimettersi.

Detto questo, due considerazioni si possono fare:

  • alla fine di questo ciclo politico, il saldo dell’esperienza dalemiana era sicuramente in difetto. La grande idea della riforma dello stato, effettivamente necessaria per garantire una via d’uscita alla degenerazione dei rapporti tra istituzioni, partiti e società, era miseramente fallita. Sul lavoro, tra mille difficoltà si era riusciti ad approvare alcuni palliativi, come il “pacchetto Treu”, che senza uno sviluppo ulteriore non scardinavano, ma addirittura consolidavano la natura bimodale della scena professionale italiana, suddivisa tra personale garantito al di là delle effettive necessità sociali ed economiche e personale che, per mere questioni di data di nascita, non poteva avere accesso neppure alle garanzie minime. Inoltre, il fallimento dei disegni del 2000, di certo non dovuto solo alle colpe di D’Alema, aveva in pratica consegnato la riforma del lavoro alla destra, e a una destra della peggior specie.
  • Da un punto di vista storico, D’Alema muore nel 2000. Da allora ad oggi, non si è sentita più da lui alcuna considerazione politica interessante che fosse accompagnata da un effettivo sforzo di realizzare un impianto programmatico, e tutta la sua attività si è ridotta alla cura e alla gestione di equilibri interni a lui favorevoli, con l’intermezzo di un biennio alla Farnesina sì senza sbavature, ma anche senza possibilità di incidere veramente sulla vita politica “vera”.

Nei fatti, col 2000 D’Alema ha chiuso un ciclo politico: ha avuto buone idee, ha avuto le capacità per ottenere gli strumenti per realizzarle, ha fatto un tentativo di dare concretezza a un programma genuino e autentico, poteva riuscirci, sostanzialmente non l’ha fatto. A quel punto, e alla luce anche di questo risultato, occorreva che sia D’Alema, sia il partito prendessero atto della conclusione del ciclo. Non per mere ragioni anagrafiche o di anni di “anzianità di servizio”, ché le idee e la loro realizzazione non hanno una data di scadenza: ma perché un uomo politico, e con lui un intero gruppo di collaboratori e un sistema di gestione del potere locale, hanno avuto la piena possibilità di agire e hanno mostrato di ottenere i risultati a cui potevano arrivare, senza poter andare più in là nel breve periodo.

In un partito e in un sistema politico vitale, in cui i canali di ricambio sono aperti e attivi, la cosa avverrebbe senza scosse. Se avessimo, faccio per dire (e non è certo l’unica possibilità di soluzione) un sistema elettorale uninominale con primarie per i candidati, se avessimo l’elezione popolare di tutti i ruoli di responsabilità del partito, se avessimo un confronto competitivo per il governo a ogni elezione, in una parola se avessimo quello che D’Alema ha cercato senza riuscirci di realizzare in Bicamerale, la situazione evolverebbe rapidamente. Il D’Alema post-2000 avrebbe ancora la possibilità di gestire il consenso personale nel suo collegio, ma un suo diretto intervento sugli equilibri di potere interni si farebbbe sempre più complicato, e nel giro di qualche anno si troverebbe di fronte al dilemma tra vivere una dorata, ma inesorabile, marginalizzazione dai ruoli che contano, e rimettere in circolo il proprio consenso cedendo il passo a qualcun altro, ritirandosi in buon ordine e curando la propria successione, sempre con la teorica possibilità di tornare in pista.

Sì, questa possibilità non gli sarebbe mai negata, perché nei sistemi che funzionano la competizione serrata e durissima che rende la politica un mestiere brutto e difficile è sempre aperta: e una competizione aperta (nel paese delle corporazioni e degli ordini professionali inutili è bene ricordarlo) significa che non sono fissati limiti amministrativi invalicabili per accedere ad essa. Winston Churchill, se si fosse ritirato all’età di D’Alema, sarebbe passato alla storia come un mediocre mestierante della politica parlamentare. A quasi settant’anni, quando ormai era uscito dai ruoli di primo piano della politica di governo conservatrice, tornò sulla breccia diventando uno dei colossi del Novecento, ma lo fece perché riuscì a produrre una proposta credibile: fu uno dei pochi a capire lucidamente la portata del pericolo tedesco, e seppe comportarsi di conseguenza.

Il problema principale del sistema politico italiano è che i nostri Churchill non sono costretti a fare altrettanto per assicurarsi la sopravvivenza politica, e possono continuare ad aggirarsi nei “palazzi del potere” senza idee e senza proposte.

Ecco, il punto fondamentale per chi chiede di agevolare definitivamente il ricambio nella classe politica non è, come molti polemisti improvvisati cercano di far passare in queste ore, la volontà ottusa di guardare alla carta d’identità della nostra classe dirigente o al numero di mandati fine a se stesso. Contestare proposte così strampalate è molto comodo, ma non coglie nel segno. Quello che si chede è un sistema politico sufficientemente aperto, mobile e competitivo da consentire a chi effettivamente ha buone idee (come D’Alema nel 1997) di acquisire gli strumenti per metterle in pratica ed essere giudicato su tale base, senza dover continuamente contrattare con chi quegli strumenti istituzionali cerca di controllare a tempo indeterminato.

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