Sono nove i film italiani proiettati quest’anno al London Film Festival: tra gli altri, L’intervallo di Leonardo di Costanzo, una “gemma nascosta” della cinematografia napoletana. Ecco la recensione.
Sono nove i film italiani proiettati quest’anno al London Film Festival grazie al lavoro di Cinecittà Luce FilmItalia, l’agenzia ministeriale che si occupa di esportare il cinema italiano all’estero.
Tre i titoli di punta: Reality di Matteo Garrone, già premio speciale della giuria a Cannes 2012, Cesare deve morire dei fratelli Taviani, celebratissimo Orso d’oro all’ultima Berlinale, È stato il figlio di Daniele Ciprì, Osella per la migliore fotografia e premio Mastroianni per il miglior esordiente (Fabrizio Falco) a Venezia – in concorso.
Due titoli “minori” per il pubblico straniero, più che altro perché privi di blasoni internazionali: Il rosso e il blu di Giuseppe Piccioni e Bella addormentata di Marco Bellocchio. Due grandi classici freschi di restauro: La resa dei conti (1966) di Sergio Sollima e Viaggio in Italia di Roberto Rossellini (1954), quest’ultimo seguito dall’ottimo documentario di Francesco Patierno La guerra dei Vulcani.
Una selezione di qualità che però sfigura davanti ai numeri francesi e tedeschi (per citare due concorrenti europei), ampiamente sopra i venti titoli ciascuno grazie anche al cospicuo numero di coproduzioni – e la domanda sorge spontanea: che cosa è successo, che cosa sta succedendo al cinema italiano?
Comunque.
L’ultimo, il meno noto tra tutti i film presentati è L’intervallo, debutto nella finzione del documentarista ischitano Leonardo di Costanzo. Presentato a Venezia 2012 nella sezione Orizzonti – dopo averlo visto, condivido l’opinione di Mereghetti che lo voleva in concorso – L’intervallo esce per la prima volta dai confini nazionali in occasione della kermesse londinese, raccogliendo una messe di ovazioni e il plauso di Peter Bradshaw, che lo definisce “una gemma nascosta del cinema italiano.”
La storia (estremamente semplice) è questa: Veronica ha sedici anni ed è stata sequestrata dal boss del quartiere per delle ragioni che si chiariranno col procedere della storia. A farle la guardia in un edificio abbandonato c’è un altro adolescente, Salvatore figlio del granitaio che, in cambio della giornata di lavoro, la deve sorvegliare sino al ritorno del boss.
Il trailer ufficiale del film.
Mi dispiace assai arrivare per ultima a parlare bene di questo film: spesso le piazze estere sono luoghi per succose anteprime, ma il discorso non vale quasi mai per l’Italia – e andare ogni anno a Venezia è un lusso che ormai solo in pochi si possono permettere. Oltre che dai quotidiani nazionali (incluso Linkiesta, con un post di Martacheguarda) L’intervallo ha ricevuto commenti positivi da molta stampa di settore: Coming Soon, FilmTV, Sentieri selvaggi, Micromega ne tessono le lodi a buon diritto.
Tre cose nel film mi sono piaciute più di tutto, più o meno le stesse sottolineate nel Q&A con il regista al termine della proiezione.
Innanzitutto, la particolare, incantata bellezza del racconto. Come suggerisce il titolo, L’intervallo è una sospensione della quotidianità, una parentesi di vita che si svolge in un solo edificio (un ex manicomio abbandonato), nell’arco di un’unica giornata. Una struttura marcatamente teatrale su cui gli sceneggiatori Mariangela Barbanente (alla sua seconda collaborazione con il regista dopo L’orchestra di Piazza Vittorio: I Diari del Ritorno) e Maurizio Braucci (già collaboratore di Garrone per Gomorra e Reality) hanno saputo costruire una trama complessa, che esplora non solo i personaggi e le loro relazioni con ritmo e arguzia, ma sa sfruttare al meglio le possibilità narrative cinematografiche all’interno di uno schema altrimenti abbastanza rigido.
Penso alla sequenza girata sul tetto del manicomio: Veronica e Salvatore osservano il palazzone dirimpetto e la vita che si svolge al suo interno, fantasticando su chi, in caso di terremoto, sarebbero disposti a salvare; pur senza uscire materialmente dai confini dell’edificio, la storia acquista un nuovo, più ampio respiro attraverso i dialoghi e le scelte di ripresa.
Collegata alle scelte di sceneggiatura è l’incredibile bravura dei giovani protagonisti. Francesca Riso e Alessio Gallo sono stati scelti tra oltre duecento coetanei dei quartieri spagnoli, dopo aver partecipato a un laboratorio di recitazione durato tre mesi in collaborazione col Teatro Stabile di Napoli. Nonostante siano esordienti assoluti, i due adolescenti portano sulle spalle l’intero film senza cedimenti; l’intensità delle loro interpretazioni deve molto anche allo speciale processo di scrittura della storia, per cui la sceneggiatura e le ambientazioni si sono sviluppate in parallelo con la preparazione degli attori, in un processo di mutua crescita e arricchimento. In questo senso, l’uso di un dialetto napoletano stretto, ai limiti dei sottotitoli è molto più di un vezzo linguistico, ma diventa nell’intenzione del regista una vera e propria “colonna sonora per la storia raccontata.”
“Nel mio lavoro continuo a essere interrogato dalla città: la filmo, e ancora non trovo risposte” hadichiarato il regista alla domanda sul suo rapporto con la metropoli partenopea.
Napoli è una delle città più cinematografiche d’Italia: i migliori registi nazionali ne hanno fatto ritratti assai diversi – penso a De Sica, Rossellini, Rosi e più di recente Sorrentino, Garrone, Martone. Diventa difficile offrire un’immagine nuova e inusuale della città: di Costanzo ci riesce “tagliando fuori” tutto il resto, concentrandosi su un unico edificio trasformato nella finzione in un ex collegio per educande.
Attivo dal 1909, dal 1925 l’ex manicomio “Leonardo Bianchi” fu intitolato allo studioso di fama internazionale e gloria della neurologia napoletana degli inizi del Novecento. Costruito su un terrapieno, è circondato da un muraglione molto alto che ne segna la separatezza rispetto al mondo dei sani; strutturato in padiglioni e cortili verdi in cui Veronica e Salvatore vagabondano tra pioggia e sole, è stato dismesso nel 1983 in seguito all’approvazione della Legge Basaglia, rimanendo per qualche decennio sede ASL e quindi lasciato all’abbandono definitivo.
Nonostante l’assenza di riferimenti geografici precisi – se si escludono alcune panoramiche della città, all’inizio e alla fine del film, L’intervallo riesce a cogliere una Napoli inedita, offrendone un ritratto sospeso e inusuale. I problemi che l’hanno identificata fino ad oggi sullo schermo – criminalità organizzata, degrado ambientale e culturale – rimangono sullo sfondo, per ospitare una realtà alternativa ma non per questo meno autentica, filtrata dallo sguardo di due adolescenti che la vivono giorno per giorno e messa in scena con chiaroscuri ricchi di sfumature.
Questo è il cinema che mi piace, e che mi piacerebbe continuare a vedere, non solo sugli schermi stranieri: uno stile che non è maniera, una storia semplice ma non per questo banale, una poetica forte per un nuovo cinema civile, nel senso più alto e nobile del termine.