«Dalemiano è colui il quale nega il dalemismo», così Massimiliano Gallo titolò anni fa un mio pezzo su il Riformista. In quell’occasione cincischiavo intorno all’inutile vezzo dell’ex presidente del Consiglio di negare l’esistenza di una corrente di suoi fedelissimi nel partito.
«I dalemiani non esistono», questo era l’ordine di scuderia che pedissequamente applicavano puledri e puro sangue che pascevano all’ombra di D’Alema. E tanto si è sostenuto il principio negli anni finché in molti, anche tra gli elettori, se ne sono capacitati.
Oggi il problema dell’esistenza di dalemiani nel Pd torna in qualche modo di attualità per colpa di Veltroni che, annunciando il suo addio al Parlamento, ha trascinato lo storico rivale sullo scivoloso terreno della autocoscienza politica, quella in virtù della quale si può affermare pubblicamente la propria utilità collettiva.
D’Alema non si è fatto pregare e producendosi nell’ennesima uscita infelice (ne colleziona da un po’) ha detto che si ricandiderà «se il Pd lo chiede». Risposta aperta, specie laddove si rilevi che non si capisce bene “chi” sia il Pd.
Da chi dovrà venire la richiesta perché D’Alema possa considerarla ricevibile? Da un’inequivoca espressione dei vertici del partito? Dall’interpretazione di un sondaggio? O dall’elenco delle firme depositate in calce a un appello?
Resta dunque da capire quanto collettiva sarà l’utilità che potrà essere riconosciuta a D’Alema. E soprattutto bisognerà misurare l’efficacia dello sforzo che sarà prodotto per far passare il messaggio di sempre, ovvero che quell’utilità, se esiste, non si può definire dalemiana.
15 Ottobre 2012