La guerra dei mondi è un luogo di critica facile se non c’è un contesto con degli individui riconoscibili per evoluzioni e motivazioni. Riconoscibili non significa scontati o paradigmatici, ma leve di equilibri instabili su cui chi fa teatro dovrebbe sforzarsi di piantare assi di discussione, invocare il famoso e poche volte realizzato conflitto oltre le scene. Non si tratta di sganciare bombe e poi rimettere a posto il caos con un applauso consolatorio, ma di raccogliere le condizioni della contemporaneità cui la drammaturgia dovrebbe a sua volta rispondere con meno contorsioni cerebrali e più verità. Viene da chiedersi come mai in Italia si senta tanto il bisogno di storie irrigidite e ripiegate su stesse, lunghe code di nonsense dove la struttura è pressoché assente.
D’altro canto, gli autori non sono quasi mai degni di una considerazione istituzionale e il pubblico ha un bisogno estremo di specchiarsi. Eppure, si fatica a ridere sopra tutte quelle pressioni e condanne di regole, economie e relazioni, e non si ha certo bisogno di ammuffire in finti Beckett. Il deserto dei Tartari è vivo e vegeto anche nelle scritture sceniche, ma nel momento in cui la crisi rimasticata è nell’azione delle gerarchie lavorative di cui si respira il malumore dei tasti del pc o l’odore delle moquettes, su cui ci si affaccia prima da sottoposti o poi da rampanti, la rapina del teatro ha esito sicuro.
Guardare all’Europa e scegliere un testo slegato dall’italianità corriva sono, intanto, buone pratiche per includere e non escludere, per smembrare la colpevolezza reciproca in termini di “spinte” e rincorse per emergere in ogni campo della socialità. Roland Schimmelpfennig, giornalista freelance e oggi dramaturg della Deutsches Schauspielhaus di Amburgo, con Push-up – in scena al Teatro Filodrammatici di Milano fino al 28 ottobre – prova a scomodare tre esempi di logorio dei ruoli di un’azienda simile a un Grande Fratello. Chi ha il lusso di restarne fuori sono due vigilanti che aprono e chiudono i ring, i coreuti dell’invisibilità di chi entra ed esce.
In Push-up non esiste una meccanica semplicistica e la regia di Bruno Fornasari incalza con ambienti asettici, con grafici di redditività e proiezioni di quel che avviene negli angoli di un labirinto aziendale dove ci si confonde tra altri “qualunque”. Dal primo di tre quadri si innesca una specularità pericolosa in cui la doppiezza di una top manager e di una giovane direttrice di settore passa dallo scontro garbato alle ironie maschiliste, fino a un caffè gettato in faccia. Sono ugualmente scorrette le parole dei monologhi, espressione di una smania di distinzione già dal colore del vestito, e identiche le fragilità ammesse sui cosiddetti stati d’emergenza che spingono ad acquisti inutili o all’isolamento come prassi. Una campanella segna lo stacco dal monologo al dialogo, e non c’è solipsismo, ma frontalità diretta nel dichiarare che il sesso gioca la sua parte quando manca o quando agli occhi di tutti è esclusiva condizione femminile per arrivare in alto.
Dunque una struttura drammaturgica che non perde colpi e una squadra d’attori a servizio di quelle simmetrie corrosive dove ognuno ha il proprio turno senza concessioni né giustificazioni. Sentenze e appelli sono responsabilità del singolo che, coltivando arrivismi e fobie, contribuisce alla mercificazione dell’intera macchina. Così, quando il direttore marketing del secondo quadro stronca il nuovo spot concepito dalla fascinosa pupilla delle alte sfere, con cui peraltro ha avuto un amplesso occasionale, è ancora più spalmato in rabbia e accanimento il guasto del «Ecco dove voglio arrivare». Si è persa una condizione umana, il copione lo confessa, e l’attaccamento al nido degli uffici è una falsa vittoria in tasca estesa a macchia d’olio.
Ricevere una promozione per dirigere l’azienda a New Delhi è allora per il giovane e il senior manager del terzo e ultimo quadro la cura allo strafogarsi di merendine e trattorie italiane nei dintorni. Sono due gladiatori senza tifo che parlano per autoesaltazione: dell’uno si mostra l’alter ego di una cyclette, dell’altro la compagnia dei porno. Le immagini delle donne in vendita sono fisse come il buio della casa senza qualcuno lì ad attendere ed è inevitabile che alla fine il giovane abbia la meglio. L’ostaggio pare liberato e messo in cima alla lista e a quel punto i monologhi si sovrappongono, come si schiacciano i passeggeri di un mezzo pubblico nel tentativo di accaparrarsi posti liberi.
Dal mascheramento del lavoratore proviene la sconfitta ogni volta che “spingere” al culmine la propria presunta operatività annega l’individuo. E a quel punto la replica non è concessa a chi ottiene, ma nemmeno a chi perde. La bilancia di Schimmelpfennig è impietosa e secca, gli argini sono definiti e le maniere cariche di calcolo distruttivo. Il giudizio della scrittura e di quel teatro che se ne fa intermediario corrono sullo stesso filo dell’osservazione simmetrica, non sposano la cavalcata dei sommersi né l’arringa dei potenti. L’asse è chiaro: per diventare un po’ meno qualunque, uomini e donne gonfi di anglismi e quozienti intellettivi sopra la media, si finisce per sostituire alle relazioni solo la loro versione più profittevole.
PRIMA NAZIONALE
PUSH UP 1-3 (spintarelle)
09 / 28 ottobre 2012
Teatro Filodrammatici Milano
di Roland Schimmelpfennig
traduzione di Umberto Gandini
regia Bruno Fornasari
con (in ordine di apparizione) Michele Maccagno,Emanuela Villagrossi, Vanessa Korn, Tommaso Amadio, Marta Belloni, Michele Di Giacomo
scene e costumi Erika Carretta
disegno luci Andrea Diana
assistente scene e costumi Eleonora Rossi
assistente tecnico Alice Manieri
assistenti alla regia Filippo Renda, Giuseppe Salmetti
produzione Teatro Filodrammatici