La vicenda di don Maurizio Patriciello, il parroco rimproverato dal capo della Prefettura di Napoli, il signor Andrea di Martino, per aver dato della “signora” alla sua collega della prefettura di Caserta, ci ha stupito un po’ tutti.
Il duro rimprovero che di Martino ha inflitto all’incauto parroco è parso assolutamente inopportuno e a nulla sono valse le successive spiegazioni con le quali il prefetto ha motivato il suo singolare comportamento.
Il caso, tuttavia, descrive un fenomeno noto e che ha precedenti illustri cui sono stati ispirati sapidi ritratti nella letteratura del ‘900. Senza voler indulgere in esasperazioni che altrettanto sarebbero fuori luogo, si deve riconoscere quanto il tema delle “autorità poco autorevoli” sia una costante con la quale intere generazioni si sono dovute confrontare. Non si deve certo generalizzare, rappresentando il cittadino come spaurito e vessato da un’autorità cristallizzata nelle gerarchie, tuttavia si devono evidenziare quelle pieghe ancestrali che ancora oggi in molti casi caratterizzano il rapporto tra cittadini e istituzioni.
Eduardo De Filippo, in uno dei suoi capolavori, “L’arte della commedia”, ebbe modo di rappresentare un caso che ben si adatta alla vicenda del signor di Martino.
In quel testo teatrale si dà il caso di un teatrante squattrinato che per avverse vicende si vede costretto a recarsi dal prefetto del suo capoluogo per una di quelle richieste che all’epoca venivano significativamente definite “suppliche”.
Nel testo teatrale il povero Campese, così si chiama il capocomico che attende di essere ricevuto, si pone il problema di come rivolgersi al prefetto. Vaglia le varie possibilità al fine di risultare rispettoso ma non servile, efficace ma non arrogante. E dunque prova l’attacco del suo discorso prima con “Eccellenza”, poi con “Signor prefetto” e poi ancora con “Caro amico”, idea quest’ultima che però subito, e per fortuna, accantona.
La scelta dell’approccio non risulterà però rilevante poiché il prefetto avrà altro modo di spazientirsi, e in particolare per l’impudenza che Campese dimostrerà nell’affrontare una irrituale conversazione sullo stato dell’arte teatrale e la condizione sociale degli attori.
L’errore che compie il prefetto allontanando Campese dal suo ufficio dà la svolta alla storia che per sommi capi sto riassumendo. Nelle mani del capocomico, infatti, al posto del foglio di via finisce l’agenda degli appuntamenti cui il prefetto avrebbe dovuto attendere quel pomeriggio. Letta la lista di quegli impegni, Campese offende definitivamente il signor prefetto dicendogli che probabilmente non sarebbe stato in grado, nei successivi appuntamenti, di determinare se quei visitatori sarebbero stati reali cittadini o gli attori della sua compagnia, opportunamente camuffati da prete o medico condotto.
Tanto basta a Campese per esser messo alla porta, quasi come è capitato al parroco che si è imbattuto nel prefetto di Martino. E tanto basta anche al prefetto di Eduardo per trascorrere un pomeriggio da incubo durante il quale tenterà invano di smascherare i veri cittadini che gli si rivolgeranno per le più diverse esigenze, e nei quali invece si ostinerà con arroganza a vedere attori camuffati.
Campese, in buona sostanza, dimostra all’autorità di non essere in grado di distinguere un cittadino da un guitto, rendendo quindi plateale la sua inettitudine. E qualcosa del genere si può dire che a parti inverse sia avvenuta a Don Patriciello, che a sue spese ha sperimentato quanto possa essere difficile distinguere uno zelante funzionario da un semplice signore.