Dal febbraio 2010 Tomaso Bruno ed Elisabetta Boncompagni sono prigionieri a Varanasi, in India, accusati ingiustamente di aver assassinato il loro amico e compagno di viaggio, Francesco Montis. Tre anni in carcere per un’accusa assurda, partorita dalle menti degli investigatori indiani senza il benché minimo straccio di prova o movente, trasformatasi l’anno scorso in una condanna all’ergastolo dopo un processo di primo grado che sembrava una farsa e l’incomprensibile rigetto della richiesta di appello avvenuto giovedì scorso ad opera dell’alta corte di Allahabad.
La storia di Tomaso ed Elisabetta ricorda per certi versi quella di Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, i due fucilieri del battaglione San Marco sequestrati sempre in India con un’altra accusa assurda. Un altro processo farsa, un altro castello di ipotesi astruse e senza il benché minimo fondamento, un altro episodio di un paese emergente che si dice democratico e che invece di perseguire la giustizia preferisce fare la voce grossa sulla ribalta internazionale. Solo che, nel caso di Tomaso ed Elisabetta, il silenzio dei media e dell’opinione pubblica è ancora più assordante di quello che circonda il futuro dei due marò.
Eppure la loro vicenda è di quelle che dovrebbe far gridare allo scandalo, di quelle per cui bisognerebbe scendere in strada, riempire le piazze di cortei e manifesti. Così come sostiene anche Euro Bruno, il padre di Tomaso, raggiunto telefonicamente da Linkiesta mentre si trova in India per studiare le prossime mosse processuali assieme all’ambasciata, ai funzionari del Ministero degli Esteri e agli avvocati dello studio Titus di Delhi, i legali indiani che patrocina la causa dei nostri connazionali. «Non riesco a spiegarmi perché non si senta mai parlare di questa storia assurda» dice. «Escluso qualche giornale locale, qualche sporadico servizio in tv e il gruppo su Facebook nato per sostenere Tomaso, nessuno racconta cosa sta succedendo».
Ecco cosa sta succedendo, e cos’è successo. Nel febbraio del 2010 Tomaso Bruno, 29 anni, di Albenga (SV), ed Elisabetta Boncompagni, 38 anni, di Torino, sono in vacanza in India in compagnia dell’amico Francesco Montis, 30 anni, sardo, conosciuto qualche tempo prima a Londra. Ma un giorno Francesco si sente male. È di salute cagionevole, ma stavolta il malore è ancora più serio del solito. Tomaso ed Elisabetta tentano di prestargli soccorso, cercano di farlo portare in ospedale, contattano persino l’ambasciata per avere tutto il supporto possibile. Non c’è nulla da fare, però. Francesco morirà poco dopo. Un drammatico incidente funesta così quella che avrebbe dovuto essere soltanto una vacanza divertente tra amici a cui piace girare il mondo e vedere posti nuovi.
Ma per la polizia e i magistrati locali non è così. Tutto comincia con il piede sbagliato. Per gli inquirenti non si è trattato di un malore. Anzi, ci dev’essere per forza del torbido di mezzo. E così si inventano il triangolo amoroso finito in tragedia per una storia di gelosia. Francesco, dicono gli indiani, è stato ucciso per motivi passionali, perché Tomaso ed Elisabetta volevano liberarsi di un intralcio alla loro storia. Peccato che la giustizia non sia una soap opera, né una sceneggiatura di Bollywood. Peccato che non ci siano prove. Peccato che i due ragazzi abbiano fatto di tutto per salvare l’amico malato, portandolo in ospedale, contattando immediatamente l’ambasciata italiana. «Non è certo così che si comporterebbero due assassini», commenta il padre di Tomaso. Peccato che sulle spoglie del povero Francesco non ci sia il minimo segno di una morte provocata. Peccato che Francesco fosse effettivamente molto malato, e per il suo disagio fosse costretto ad assumere un cocktail di farmaci molto impattanti. È stata proprio un’overdose di medicinali, unita al fatto che Francesco era un accanito fumatore, ad ucciderlo. Ed è anche la tesi del patologo italiano contattato dalla famiglia Bruno.
Ma il tribunale indiano affida l’esame autoptico ad un oculista. Non ad un patologo dell’università locale, come avviene abitualmente in casi come questo. No, il dipartimento di anatomia patologica viene bellamente ignorato per affidare l’incarico ad un oculista reperito dio solo sa come. Gli stessi medici universitari si diranno poi sorpresi di una simile scelta, cadendo dalle nuvole. Intanto l’oculista improvvisatosi anatomopatologo, dopo un referto che parla letteralmente di tutt’altro, scrive in calce «morte per strangolamento». I segni? Non ci sono. In compenso ci sono i morsi dei topi, perché le condizioni igieniche dell’obitorio locale sono al di sotto di qualunque standard. Bastano dunque quelle tre parole scritte assolutamente a caso per condannare Tomaso ed Elisabetta. Nonostante nel controinterrogatorio gli avvocati della difesa abbiano letteralmente smontato le tesi assurde degli inquirenti, facendo ammettere allo stesso oculista di non essere per nulla sicuro della sua tesi. Nonostante persino la madre di Francesco avesse scritto ai giudici raccontando che il figlio era molto malato, e lei stessa considerava assurda l’accusa di omicidio a carico degli amici. Il tribunale fa spallucce, e quando il martelletto del giudice cade sul banco, una condanna all’ergastolo piomba come un macigno sulle spalle dei due ragazzi.
«In qualunque altro paese non saremmo arrivati mai ad un processo, la vicenda si sarebbe fermata all’istruttoria» dice al telefono il signor Bruno. «E non lo dico io che sono il padre di Tomaso . Lo hanno detto tutti quelli che hanno preso in mano gli incartamenti di questo processo per aiutarci: avvocati, giuristi, politici, diplomatici. Ma siamo in India, e qui le cose vanno così». E adesso? «Incontreremo l’ambasciatore italiano a Nuova Delhi per farci spiegare quali siano state le motivazioni della richiesta di appello avanzata dai nostri avvocati. Tutti insieme lavoreremo anche per studiare le prossime mosse» ci dice Euro Bruno. «Finora la Farnesina, attraverso l’ambasciata, ci è stata vicinissima: ci ha procurato i legali per la causa, ha studiato con loro la strategia difensiva. Ci ha dato anche un grande sostegno dal punto di vista morale» spiega riconoscente il padre di Tomaso. «Ora speriamo possa darci un aiuto per l’appello alla Suprema Corte. Speriamo in un aiuto anche dal punto di vista economico –dice – perché le spese legali che abbiamo dovuto sostenere fino ad oggi sono state ingentissime, e adire la più alta corte indiana è ancora più complesso e costoso».
Papà Euro e mamma Marina non hanno perso la speranza di poter riabbracciare il loro figlio. Così come non l’hanno persa la mamma e il papà di Elisabetta. Né l’ambasciatore italiano Giacomo Sanfelice di Monteforte, e lo staff che con lui lavora per la liberazione dei due italiani. Né gli oltre 7mila sostenitori del gruppo Facebook “Tomaso libero!”, che continuano senza sosta a scambiarsi informazioni, a cercare di tenere alta l’attenzione di quei media che sembrano volerli ignorare cos’ ostinatamente, ad organizzare manifestazioni e mobilitazioni di ogni genere in giro per l’Italia, per infrangere il muro del silenzio. Perché è proprio questa la peggiore condanna che si possa comminare a Tomaso ed Elisabetta: il silenzio, l’oblio. Che sono peggio di qualunque prigione lontana, di qualunque cella maleodorante, di qualunque catena o chiavistello.
Intanto i due ragazzi ancora in carcere non hanno abbandonato per un solo attimo la voglia di lottare. Stanno pensando anzi di inscenare uno sciopero della fame ad oltranza. Secondo loro, che l’intera vicenda l’hanno vissuta da dietro le sbarre di un carcere in un paese del Terzo Mondo, lo Stato non ha fatto abbastanza. E meno di tutti ha fatto l’opinione pubblica, prontissima ad indignarsi per qualche ballerina scosciata o per le code chilometriche di chi vorrebbe accaparrarsi il nuovo iPhone, ma sorda e cieca davanti alla storia di due connazionali rinchiusi in un sordido buco in capo al mondo per una colpa che non hanno commesso.