Chi le scrive è un trentatreenne, ricercatore, che vive e lavora a Roma e sta attraversando un periodo difficile della propria vita. I fondi per la mia ricerca sulla stabilizzazione delle fiamme turbolente (“èh??” dirà giustamente lei, gentile Signora Aspesi, e pure io) si sono prosciugati, e pur di continuare sono costretto a passare le mie giornate formattando su word tutte le e-mail del barone della facoltà di Fisica da cui dipendo e a fare le pulizie a casa di signore divorziate.
Diciamo che mi sono anche un po’ isolato dai miei affetti, vuoi perché la mia famiglia è in diaspora, vuoi perché due anni fa mi sono convertito al cattolicesimo e ho preso l’abitudine di recitare ad alta voce brani dalla lettera di San Paolo ai Romani – insomma, ho un po’ perso di vista gli amici. Unico mio contatto superstite col secolo, un operaio polacco in perenne fuga dalla giustizia con cui ho instaurato una bella intimità: io lo accompagno al pronto soccorso in piena notte quando si fa male o gli ricarico le schede telefoniche e lui mi insulta.
Mesi fa incontro lei, Fiora, medico oculista al policlinico Umberto I di Roma, e ne rimango come folgorato. Nelle settimane successive faccio del mio meglio per conquistarla: arrivo con ore di ritardo ad un appuntamento con lei per poterle regalare una fotocopia stazzonata di una foto di Simon Weil; la porto in gita fuori porta, la domenica, a visitare tutte le shanty-town di Roma Nord; la investo con alcuni miei interminabili flussi di coscienza a proposito della fede, delle ferite profonde che ci lascia addosso il dover sopravvivere ad un’infanzia del tutto normale e, infine, su quanto puzza la discarica di Malagrotta.
E lei si innamora. Cioè prima ha una copiosa emorragia nasale, e poi (sono solo io a temere un nesso tra le due cose?) si innamora di me.
Vorrei poterle scrivere che da allora sono seguiti momenti di gioia intensa. D’altronde cosa c’è di più bello che trovare l’amore? Dell’ amore quando inaspettato arriva, a toccare con la sua grazia un’esistenza sfilacciata e come priva di compattezza, una vita fatta di tanto spleen automobilistico e inesauribili borborigmi emotivi?
Però non è andata così, sin dal nostro primo incontro io e Fiora ci siamo dimostrati subito quel tipo di persone incapaci per costituzione di produrre endorfine. Di quelli che ostinatamente rispondono bastoni quando l’amore butta denari, insomma, quelli.
Ora, sia chiaro che di questa desolante situazione io non incolpo le circostanze, il destino cinico e baro, le problematiche concrete quali la mia disoccupazione o le difficoltà incontrate nel trovare casa insieme. Io di questo incolpo l’AUTORE. No, non il Massimo Fattor di manzoniana memoria, ma il mio Fattore, Christian Raimo. A lei che è di sofisticate letture non sarà certo sfuggito che la mia storia è, come dire, vagamente familiare. Questo perché, per l’appunto, il mio nome è Giuseppe, e di mestiere faccio il protagonista di questo recente e importante romanzo, Il Peso della Grazia.
“Mi hai ridotta ad un niente” ha detto lei, Fiora, a pagina due, dopo una notte d’amore. Mi creda Signora Aspesi, non era ad una mia demoniaca prestazione sessuale cui ella si riferiva, ma manco per niente. La sua frase rifletteva piuttosto quell’incapacità sua, e anche mia, di percepire il nostro amore come pienezza, ma solo come annichilimento ulteriore.
Tutto questo mi ha fatto riflettere, durante uno dei miei lunghi e insensati giri in macchina alle periferie dell’Urbe, io non dico che i romanzi non possano essere tristi, aprire scorci sulle esistenze difficili però, sarà forse egoismo il mio, avrei davvero preferito abitare in un romanzo meno desolato.
Non so come andrà a finire tra me e Fiora. Deve sapere che in questo momento, ora che ho preso l’iniziativa di scriverle di nascosto, la nostra vicenda non è conclusa, il mio presente, quello dal quale le scrivo, è la pagina 245.
Però, insomma, ho dei brutti presentimenti, stanno accadendo cose, vi sono nuove incomprensioni. E poi, diciamocelo, in un romanzo deve pur succedere qualcosa, sottostiamo tutti alle dure regole dell’economia narrativa. E mi sa che qui, economicamente e narrativamente parlando, si mette male.
Io non ce l’ho con il mio creatore per il fatto che mi sta mandando incontro alla tragedia, e nemmeno per aver fatto di me un fallimento in corso, uno che si gira e si rigira nella propria inconcludenza. Però una cosa mi rattrista davvero, ed è questa: io mi sono innamorato, il libro è la storia di quest’amore ed esso, come tutti gli amori dovrebbe aver conosciuto almeno un istante di puro ed estatico abbandono. E certo, sono d’accordo che poi, inevitabilmente, quell’uragano biochimico che viene a rapirci il buon senso piano piano si placa, e gradualmente lascia intravedere i problemi, infine ci restituisce al quotidiano con tutte le sue vessazioni e a noi stessi.
Ma questa gioia, questa “grazia” dov’è? Dov’è mai stata? Io sento solo tanto “peso”. Fiora, la quale sconta ancora più crudelmente di me la tirannia dell’economia narrativa era e rimane, a causa del suo essere un personaggio secondario, una cifra, una superficie opaca a celare un interno che nessun narratore onnisciente interviene a illuminare – e questo ha perfettamente senso in un romanzo, ma è un po’ frustrante quando il personaggio secondario e opaco è la tua fidanzata.
Fiora non dice quasi niente, e pare quasi amarmi suo malgrado. E io? E io la amo, monologo incessantemente sul mio amore per lei – del resto, le mie prerogative di Io narrante mi permettono di intravedere in ogni cosa un palpitante correlativo oggettivo da sviscerare a mio piacimento.
Ma mai che la gioia di amarla ed esserne riamato venga per un momento a sollevarmi, riscattarmi dalle cupezze quotidiane che mi tengono ostaggio. Mai che amarla mi abbia fatto venir voglia di essere un po’ meglio di come sono, mi abbia dato la spinta a cambiare le cose, smettere di distrarmi e sabotare, incupirmi e arrendermi. Sarà per questo che Fiora è inquieta? Che mi dice che l’ho ridotta ad un niente? Che i miei abituali sproloqui sulla fine del mondo e le metastasi che ammalano Roma la lasciano ora un po’ fredda?
Sarà anche grazia un amore così, Signora Aspesi, però io non mi sento riconoscente.