Ho aspettato ventiquattro ore prima di mettermi di impegno e cercare di tracciare un’analisi compiuta del voto di ieri l’altro. Non tanto per la difficoltà a leggere le cose con la dovuta oggettività, ho votato Renzi e non me ne vergogno. Quanto più per la stanchezza di una giornata passata al seggio. All’ufficio elettorale, per la precisione, quello da cui transitano tutti gli elettori che ancora devono mettere quelle tre o quattro firme qua e là, versare il contributo economico di rito («due euro minimo, ma se vuole lasciare qualcosa in più…») e sottoscrivere l’appello pubblico dei progressisti. Trafile burocratiche alienanti, nemmeno il tempo di assecondare l’elettore che già tocca mandarlo via per lasciar posto ad un altro, altrimenti tocca fare i conti con la gente in fila. Un dato bellissimo la partecipazione che sfiora i tre milioni e cento, quasi un milione di elettori in meno rispetto le primarie d’incoronazione a Prodi (anno 2007), ma in tempi di malcontento viaggiante è tutto grasso che cola. Merito, indubbiamente, di chi queste primarie le ha volute contro tutto e tutti: Bersani e Renzi insieme. Il primo, impegnato da Segretario a fare i conti con un politburo più spaventato che incoraggiato dall’apertura di una fase nuova; l’altro con le celeberrime picconate che han fatto storia. A vedere le persone in fila, coi dati dell’affluenza sotto controllo, non poteva che ronzarmi in testa il presagio, poi rivelatosi un dato di fatto, della sconfitta cocente di quella palude annichilita di capibastone dal cui pozzo sembrava non potesse mai mancare acqua, ma che oggi deve fare i conti con la propria autoreferenzialità. Perifrasi articolata per non fare i nomi dei soliti noti.
Un esito che lascia aperte tutte le possibilità meno una: che da lunedì prossimo il centrosinistra somigli vagamente al modello oligarchico di cui sopra. Certo, per Renzi le chance sono pochine, ragione in più per giocarsi il tutto per tutto, votarlo, e sperare che la quasi totalità degli elettori di Vendola, Puppato e Tabacci converga su di lui. Se al primo turno la tendenza è quella di votare il candidato più vicino, al ballottaggio si vota per il meno lontano e non è detto che l’asse discriminante tra i due contendenti non possa essere quello tra conservazione e rinnovamento dello status quo. Bersani ha dalla sua due fattori principali. Il primo: un elettorato compatto e più affiliato che parte dalla stragrande maggioranza dei Parlamentari del Pd, dei quadri dirigenti, e arriva fino alle più remote sezioni locali. Il secondo: un bacino elettorale in entrata potenzialmente più consistente di quello del suo sfidante, con la maggioranza degli elettori di Vendola più allettati dalla prospettiva bersaniana.
Vero è che nelle regioni rosse la spunta Matteo Renzi: vince in Toscana, in Umbria, nelle Marche e viaggia tre punti oltre la media personale in Emilia Romagna. Segnale che qualcuno, a considerarlo un corpo estraneo alla sinistra, ha fatto male i conti. A meno di non voler supporre un’allucinazione collettiva proprio là dove il Pci sfondava la soglia del 60%.
Dinamica uguale e contraria nel sud Italia: anche qui prevale l’asse rinnovamento – conservazione con una netta affermazione di Bersani. Elettorato solido, quello meridionale, storicamente più legato all’esistente e meno propenso a scommettere sulle transizioni.
Nessuno indaga il dato più importante: quanto coesa risulti la coalizione progressista dopo il primo turno. Perché poi, in fin dei conti, quel che importa è tutto lì: nel saper costruire un progetto comune. E spiace notare che nella scelta del leader l’elettorato democratico non si sia in alcun modo fuso con quello di Sel, entrambi più propensi a sostenere i propri candidati che quelli dell’altro partito. E la proporzione tra i due si specchia nell’esito finale con Vendola che zoppica al 15% e la somma dei candidati del Pd che vola oltre il 70%. Non che questo comprometta il buon esito dell’operazione, ma se primarie sono devono esserlo fino in fondo senza preclusioni per nessuno.
E qui veniamo al capitolo più spinoso: quali regole, come gestirle e perché. Partendo dal fondo: chi può votare al ballottaggio. Il regolamento prevede che lo possano fare, tanto per parlare alla maniera di Stumpo, solo: «gli elettori che hanno votato al primo turno e coloro che avevano già effettuato la registrazione entro le 20 di domenica scorsa». E poi: «Sarà aperto un apposito ufficio elettorale dove i ritardatari dovranno spiegare, documentandola, la causa della loro mancata registrazione. Se uno arriva e dice ‘scusatemi ero a New York’, ecco, questo signore deve fornirci almeno i biglietti dell’aereo». Chiedo io: cosa accade se l’elettore non può fornire una giustificazione documentata della propria assenza? Se, ad esempio, Tizio avesse contratto un virus intestinale che gli ha impedito di votare domenica scorsa (cosa affatto difficile, di questi tempi) quali prove può addurre a suo favore? Il pallore? L’aria moribonda? O, magari, l’alito pesante? E se, invece, fosse guarito e i segni della malattia scomparsi, perderebbe in automatico il diritto di votare? Se a Caio fosse mancato un lontano parente, dovrebbe esibire il certificato di morte al cospetto degli occhiuti probiviri del comitato Italia Bene Comune?
Scherzi a parte, passiamo all’altro nodo da sciogliere. E qui, tocca far parlare il regolamento delle primarie che, all’articolo 3 comma 7 prevede che non possono votare coloro che «svolgono attività politica in contrasto con la coalizione di centrosinistra Italia Bene Comune». Come riconoscere costoro? E’ solo un modo per allontanare i più noti avversari da urne e gazebo? Oppure si vuole operare una selezione fisiognomica degli elettori come non accadeva da quarant’anni («tutto bene se hai le mani callose, vuol dire che appartieni alla classe operaia; tu che indossi quel maglione firmato, per piacere a casa!»)? E un militante dell’Idv, svolge attività politica in contrasto con la coalizione?
A lungo mi porterò dietro le code, lo sguardo vispo e soddisfatto dei tanti elettori, le ore di divertimento al seggio, la stanchezza che incombe, ma viene cancellata dalla forza dell’entusiasmo. Chiunque sarà il vincitore dovrà fare i conti con tutto questo. Quel bellissimo caos.