Di fronte agli occhi, una macroaffissione ricalca il sensazionalismo di pellicole di successo misto ai manifesti brechtiani che dichiarano senza filtri. La scena è aperta, meno lo è la sua protagonista: Anna Cappelli. Uno studio cui il drammaturgo napoletano Annibale Ruccello affidò forse la coscienza dei falsi successi sessantottini poco prima di morire in un incidente stradale a trent’anni. E di tragedia si tinge la scrittura dall’inizio, attraverso il volto espressionista e magistrale della sua interprete di oggi, Maria Paiato, dove non esiste traccia di ravvedimento ma stortura. Una vita sghemba quanto gli occhi senza fissa dimora nella smania di un’affermazione interdetta dai classismi e rincorsa dall’avidità più anaffettiva.
Lo spazio attorno ai gesti di Anna è vuoto, prende posto una valigia e, nella versione registica di Pierpaolo Sepe attenta a non cedere a tranelli melodrammatici, la schiena della donna si piega a condensare e rimarcare la noia dei tasti e delle scartoffie in cui è immersa una volta trasferitasi da Orvieto a Latina, lasciando la propria camera alla mercé del padre che incautamente la cede a un’altra figlia.
Passano i mesi e le ore identiche d’uscita al cinema con la domestica della proprietaria di una casa presso cui Anna vive intollerante al puzzo dei suoi gatti e, soprattutto, al possesso negato di una stanza che sia “sua” per davvero. L’ossessione alimentata di giorno in giorno, di abitudine in abitudine dopo lunghe conversazioni con Tonino, il ragioniere dell’ufficio, vede quasi riaffacciare la brama verista per quella “roba” che Anna Cappelli non arriverà mai a dominare. Lo stesso ragioniere, corteggiato coi modi di una civetta incanaglita solo per una convivenza in dodici stanze, impersona un corpo su cui Anna si esercita in tirannia.
Le passeggiate marziali in tondo, i cambi d’abito quando è ora di prepararsi per un incontro galante o spogliarsi per sedurre e ottenere la cacciata della cameriera, che sembra possedere di più e meglio gli oggetti e le stanze, sono il refrain di un distacco sempre più rovinoso dalla stabilità tanto anelata, da un amore sognato e mai adeguatamente rimpiazzato dal benessere e dalla frequentazione metodica di coppia. Diventa così agghiacciante lo scarto tra le due volontà di Anna Cappelli: l’una posata e infarcita di richiami edificanti all’emancipazione del boom italiano, e l’altra preda di nevrosi che alimentano il crescendo della tragedia fino all’atto di vendetta.
La separazione da Tonino è infatti un intoppo non previsto nella risalita dell’impiegata ancora in collera per quella camera ceduta alla sorella. Persino la pelle dell’uomo finisce nel vortice di una mente che macchina per meritarsi una ricompensa e un’ascesa che blindi definitivamente la valigia delle aspirazioni. Ma la regia incalza con grida furiose in assolo musicale quando la rabbia di Anna sta per maturare l’orrore. E la parola diventa nastro veloce che confessa l’inconfessabile, ombra nera che simula l’accanimento del coltello contro se stessa e l’artefice delle disillusioni: Tonino non raggiungerà mai la Sicilia e Anna smetterà di tingersi di convenzioni borghesi.
A noi la coscienza di veder riflessa in un’attrice, forse a tutt’oggi ineguagliabile per talento e affinamento accademico, la fallita rivoluzione dei costumi tanto vagheggiata e ridotta a smarrimento che uccide. Eccola la pianificazione tutta contemporanea di una scalata buia perché pugnalata “là dove risiedono i sentimenti”.
Piccolo Teatro Studio Expo Milano
dal 27 novembre al 2 dicembre 2012
Anna Cappelli, uno studio
di Annibale Ruccello, con Maria Paiato, regia Pierpaolo Sepe
scene Francesco Ghisu, costumi Gianluca Falaschi, luci Carmine Pierri
Produzione Fondazione Salerno Contemporanea Teatro Stabile di Innovazione