In un suo post a commento di alcune affermazioni di Renzi al confronto TV, Alberto Crepaldi contestava l’incoerenza della frase (da lui, e da me, condivisa) “Equitalia è stata forte con i deboli e debole con i forti […] bisogna agire al contrario di Equitalia” con la ricetta in base alla quale “Serve un modello […] che assomigli più all’IRS americano che alla nostra agenzia delle entrate”. Infatti, secondo l’autore, il modello americano è meno “amichevole e garantista” di quello in vigore da noi.
Non intendo discettare qui su cosa effettivamente Renzi volesse o non volesse dire nella sua battuta di un minuto o poco più (del resto, è possibile farsi un’idea altrove). Né sono un esperto di pratiche di esazioni fiscali comparate. Però, in qualità di contribuente che ha presentato dichiarazioni dei redditi sia in Italia che negli USA, posso provare a chiarire che cosa secondo me non va qui da noi in un settore così cruciale per la vita del paese. Non pretenderò quindi di formulare proposte strutturate, ma semplicemente di raccogliere alcune impressioni e giudizi in vista di un possibile confronto.
Tanto per cominciare, il pezzo di Crepaldi da cui sono partito secondo me coglie solo parzialmente nel segno individuando nel sistema di garanzie e nell’atteggiamento friendly delle agenzie di riscossione un problema di tale portata da ritenere sbagliato ispirarsi a un sistema più “duro” per sostituire il nostro. Sicuramente questo aspetto può avere un ruolo, ma in un quadro decisamente più complesso. Per quanto mi riguarda, io non ho problemi a che “Equitalia accesso libero a quasi ogni tipologia di informazione patrimoniale e finanziaria” su di me o abbia un sistema sanzionatorio particolarmente pesante, se semplicemente evita di rompermi le scatole quando non faccio niente, e usa questi strumenti potentissimi nei confronti di chi di dovere. Il vero problema è che non avviene così. Faccio qualche esempio.
Tempo fa, Linkiesta aveva pubblicato una storia che descriveva piuttosto bene come funziona tutta la macchina dell’esazione fiscale. Un contribuente riceve un avviso per un’irregolarità, e anche se ritiene di poter mettere la cosa a posto spesso viene invitato da un “muro di gomma” a scegliere tra le lungaggini e i costi della giustizia amministrativa, che probabilmente finità per costargli più della multa, e un patteggiamento rapido e relativamente conveniente.
La cosa mi sembra credibile, perché anch’io, nel piccolo delle cifre del mio patrimonio, ho rischiato di finire invischiato nell’ingranaggio: per un errore materiale commesso da un impiegato dell’Agenzia delle entrate nell’invio telematico di una mia dichiarazione ho dovuto presentare una correttiva oltre la scadenza, pagando una sanzione di circa 21 euro che avrei potuto risparmiarmi se fosse stata presunta (come dovrebbe) la mia buona fede; l’anno dopo, però, Equitalia mi ha mandato le cartelle esattoriali per lo stesso errore, visto che le era arrivata comunque comunicazione a causa di un ritardo nelle comunicazioni tra gli uffici, e mi ha chiesto di pagare oltre 500 euro. Fortunatamente, avendo io la documentazione dei miei adempimenti ed essendo il caso estremamente semplice, con un ulteriore viaggio all’Agenzia delle entrate ho chiarito la mia posizione. Se però avessi avuto un profilo fiscale più complesso, come appunto quello di un imprenditore o di un libero professionista, probabilmente avrei dovuto perdere più di 21 euro risultando praticamente costretto a patteggiare per colpe non mie.
Di fronte a casi come questi, mi sembra che si possa così riassumere la percezione per i contribuenti del reale funzionamento del nostro Fisco: le agenzie preposte alla riscossione sono messe di fronte a precisi obiettivi finanziari nell’acquisizione delle somme dall’evasione fiscale, e non avendo gli strumenti o la capacità di andare a prendere i soldi a chi effettivamente ha aggirato le norme fiscali cercano di raccoglierli con interventi “a pioggia”, coinvolgendo quanti più contribuenti possibile di fronte al solo sospetto di una irregolarità (e guardandosi bene da un supplemento d’indagine che eventualmente scagioni il malcapitato) e adeguandosi alla farraginosità della nostra giustizia per ottenere un risultato di esazione almeno parziale, col patteggiamento, ai danni di cittadini che in gran parte dei casi non dovevano nulla. Buona parte delle rigidità dell’atteggiamento delle agenzie di riscossione nei confronti degli imprenditori in difficoltà o delle famiglie si può riassumere in questo modo.
Ebbene, di fronte a questa situazione, quello che mi spaventa non è un’ampia libertà d’azione del nostro Fisco nelle indagini, ma caso mai il fatto che le istituzioni preposte all’esazione della tassazione non abbiano gli strumenti e le competenze tecniche per fare queste indagini con criterio, e con la missione di garantire la giustizia colpendo chi froda la collettività, non di fare cassa in qualche modo. Naturalmente, non ho le conoscenze necessarie a proporre un percorso di riforma adeguato a questi obiettivi, ma almeno in parte credo di aver abbozzato un punto di arrivo che, chiudendo il cerchio, non è incompatibile con una ispirazione di massima (sui singoli provvedimenti si può discutere) non solo “americana”, ma anche propria di altri paesi dell’Europa continentale dove l’evasione è più bassa e il rapporto tra fisco e cittadini più sereno che da noi.
Perché, e faccio un passo avanti in queste mie riflessioni sparse, stando all’estero per diversi periodi (non solo negli USA; ma anche in Inghilterra, Francia, e per un periodo più limitato i Germania), mi sono fatto l’idea che questa serenità, diffusa in tutti i paesi più civili del nostro, non nasca da garanzie e paletti posta alle capacità d’indagine delle agenzie di riscossione, ma caso mai dal contrario.
In effetti, è vero, la mia dichiarazione dei redditi americana era precompilata, ma del resto, essendo io un lavoratore dipendente, non si trattava di un esercizio difficile. Più interessante era il fatto che quando uscivo a cena o a fare spese negli USA, ma anche in Francia, per dire, e parlo di paesi con un’evasione fiscale che non possiamo fare altro che invidiare, lo scontrino mi veniva dato se volevo, o se serviva a me per dedurre una qualche spesa. In generale, l’idea nell’aria era che la documentazione di spesa di valore fiscale non fosse obbligatoria in generale, ma per alcuni prodotti o servizi.
Questo significa che la determinazione delle tasse che l’esercente doveva pagare era fatta e verificata in altro modo: immagino ce ne possano essere molti e diversi, dall’elaborazione di un’imposta media su base territoriale al controllo dei dati delle forniture all’ingrosso, ad altre ancora e non voglio addentrarmici. Quello che qui voglio notare (riprendendo, in parte, qualche considerazione ispirata su questi schermi da chi ha una penna più leggera e gradevole della mia) è che laddove il Fisco funziona, non c’è bisogno di scaricare sull’onestà dell’esercente e/o sulla caparbietà dei cittadini il controllo dei guadagni dei commercianti e dei liberi professionisti. Quello di derubricare il pagamento delle imposte a una questione di etica pubblica e di comportamenti diffusi è un gioco di prestigio pericoloso, perché serve a liberare delle proprie responsabilità istituzioni che finora non si sono potute, o non si sono volute, rendere adeguate del ruolo che ad esse è stato affidato.
Tutto questo, naturalmente, non renderebbe meno necessaria una seria riforma della tassazione che ridistribuisca tra i vari settori il carico fiscale e si accompagni a un ripensamento della spesa pubblica. Ma almeno ci farebbe sentire meno inadeguati.