Ieri sera su Raiuno si sono confrontate non soltanto due persone ma due diverse idee dell’Italia. Abbiamo visto un confronto tra due mondi molto distanti (non solo per ragioni anagrafiche) e due forme diverse di interpretare il passato, il presente e il futuro del nostro Paese.
Bersani rappresenta obiettivamente quanto di meglio la vecchia guardia del Partito Democratico possa offrire oggi all’elettorato: è una persona perbene, preparata, e con una lunghissima esperienza politica e ancor prima amministrativa. Viene da una regione, l’Emilia Romagna, che rispetto ad altre è un esempio di buon governo: è tra le più ricche del Paese, nonostante le recenti calamità naturali, e offre un alto tenore di vita e servizi pubblici spesso eccellenti ai propri abitanti. Come ha tenuto lui stesso a ripetere più volte, è uno che ha sempre cercato il cambiamento quando si è trovato a occupare posizioni di governo.
Per Bersani “governare significa cambiare” e bisogna riconoscere la sua coerenza da questo punto di vista: ha svolto molto bene la funzione di ministro ed è stato il padre di alcuni importanti provvedimenti di liberalizzazione e modernizzazione in un Paese per molti versi ancora di stampo medievale. Ha tentato, senza tuttavia riuscirci, per evidente mancanza di sostegno politico, di liberare il Paese dalle corporazioni e da odiosi privilegi di casta. Non è riuscito, però, da segretario del PD, a conferire unità e visione del futuro a un partito che invece, nascendo già vecchio nel modo di pensare e di agire, ha badato soprattutto a tutelare se stesso e la sua immobile classe dirigente mentre finiva (si spera) di trarre indebito vantaggio da una gestione dissennata del denaro e del potere pubblico che ha portato l’Italia sull’orlo del fallimento. Nel dibattito televisivo è venuta fuori la corresponsabilità del PD nello sfascio economico e morale della Regione Lazio e nella conservazione, fino a poco tempo fa, di privilegi assurdi per la classe politica, quali i vitalizi per i parlamentari.
Su questi temi e più in generale sul tema del rinnovamento e della modernizzazione della politica Bersani non poteva che trovarsi in difficoltà e in imbarazzo. Alla fine dei conti Renzi gli chiedeva conto degli errori storici di un centrosinistra di cui Bersani è stato comunque un protagonista, anche se non abbastanza influente quando, negli anni Novanta, i vari governi progressisti avrebbero potuto riformare l’Italia e risolvere una volta una delle più gravi (e imbarazzanti) anomalie democratiche italiane, e cioè il conflitto d’interessi del padre-padrone del centrodestra, Silvio Berlusconi. In certi momenti Bersani è parso quasi giustificarsi per non aver fatto abbastanza in passato, non sentendosi abbastanza competente in settori chiave per la democrazia e lo sviluppo economico e culturale quali i media e le comunicazioni.
Renzi è stato, a mio avviso, giustamente intransigente nel porre l’attuale classe dirigente del PD di fronte alle proprie responsabilità storiche e di fronte all’incapacità del partito di far selezione e pulizia al proprio interno sulla base del merito e delle competenze. Il sindaco di Firenze ha giustamente ricordato la cattiva prova che il PD ha dato di sé quando, recentemente, si è trattato di procedere alle nomine dei commissari delle autorità indipendenti (per esempio l’AGCOM o il Garante per la protezione dei dati personali) che si è preferito lottizzare anziché valorizzare con la scelta di nomi di comprovata indipendenza e competenza. Renzi ha anche sottolineato come la stragrande maggioranza del partito oggi appoggi Bersani, che può esser visto come il garante dello status quo e dell’odierno assetto di alleanze con personaggi politicamente problematici o discutibili.
Renzi è riuscito ieri sera, come in tutta la sua campagna elettorale, a far qualcosa che alla maggioranza degli italiani (soprattutto i politici) non riesce bene, e cioè sfidare apertamente l’ordine costituito e mettere in discussione l’autorità del capo di turno, cercando di metterlo pubblicamente in difficoltà, senza paura (e con argomenti molto validi, aggiungerei). Renzi dà l’impressione di volersi organizzare diversamente dai politici tradizionali e di voler scegliere i propri consiglieri e collaboratori non in base alla propria anzianità o mera gavetta all’interno del partito – criterio principale di selezione in Italia non solo nella politica, ma anche nelle imprese, nelle professioni e nelle università – ma in base alla capacità di pensare e proporre soluzioni concrete. Nel sostenere tutto ciò Renzi ha, rispetto a Bersani, il grande vantaggio di non poter essere smentito dai fatti proprio perché privo di responsabilità di governo precedenti sulla scena politica nazionale.
Sulle questioni che interessano il blog, più da vicino, non c’è confronto poiché Matteo Renzi è l’unico dei candidati alle primarie ad aver posto con forza il tema dell’economia digitale, dei nuovi media, e del potenziamento delle infrastrutture delle reti anche in funzione di possibile sviluppo economico del Mezzogiorno. Ciò in un dibattito in cui, incredibilmente, a dispetto dei tempi, è ancora la televisione e il relativo mercato a costituire il più importante argomento di conversazione e di scontro in tema di comunicazioni. Bersani non pare un sessantenne qualunque: è intellettualmente aperto e moderatamente curioso delle novità tecnologiche, molto più di tanti suoi colleghi della stessa generazione. Su questi temi però non riesce ad andare oltre la questione della digitalizzazione dei servizi della pubblica amministrazione, che è banale ed è ormai in via di lenta realizzazione persino in Italia. Spiace dirlo ma Bersani non sembra avere una visione del futuro e del rapporto (ormai imprescindibile) tra sviluppo economico, innovazione e semplificazione delle regole all’interno delle quali dovrebbero muoversi le imprese giovani a contenuto innovativo (le c.d. startup) e gli investitori stranieri, al momento gravemente latitanti. Su questi punti il ministro Passera e il suo team sono già molto più avanti di Bersani e Renzi si pone idealmente come loro (unico) interlocutore, se mai avesse responsabilità di governo nel prossimo futuro.
Per quanto riguarda la questione meridionale, i contendenti sono parsi entrambi molto ben intenzionati, e motivati a combattere il fenomeno dilagante della criminalità organizzata e dei suoi investimenti, soprattutto al Nord. Sia Bersani sia Renzi si rendono conto del fatto che il solo rafforzamento delle attività investigative e repressive delle attività criminali non è di per sé sufficiente a contrastare il fenomeno in aree in cui la mafia, la ‘ndrangheta, e la camorra occupano il territorio fisicamente e economicamente, con le proprie imprese e la violenza sistematica. Servono politiche volte a favorire investimenti in regioni in cui non esistono al momento prospettive di alcun genere per giovani altamente qualificati e intraprendenti oltre che per investitori e lavoratori stranieri di un certo livello. Nessuno dei due candidati però ha dedicato attenzione al problema gravissimo della fuga dei cervelli dal meridione e dall’Italia intera, che nell’ultimo decennio ha raggiunto vette insostenibili; né hanno spiegato in che modo intendono migliorare il sistema scolastico e universitario in Italia, dopo i recenti collassi e gli inevitabili tagli. Bersani ha detto che l’università è “un diritto per tutti”; ma non è per nulla vero, perché deve essere un diritto solo per i bisognosi e i meritevoli, come vuole la Costituzione, e non anche per figli di papà ricchi, scemi e ignoranti (che per esperienza personale so essere moltissimi) cui oggi la collettività finanzia ampiamente gli studi in università pubbliche. Quella è gente che dovrebbe o pagare molto di più per i servizi pubblici che riceve oppure togliere il disturbo e pagarsi le rette delle università private. Bersani in uno slancio accorato ma demagogico è sembrato ignorare il problema, a svantaggio delle classi meno abbienti che invece dovrebbero stargli molto a cuore.
Infine, in materia di Europa e politica estera i contendenti non sono andati oltre la mera enunciazione di posizioni generiche e politicamente corrette. Renzi ha preferito non dire che, nel PD italiano del 2008, un tipo come Obama, a quarantotto anni, sarebbe stato eletto in Parlamento solo se lo avessero sponsorizzato Veltroni o d’Alema, altrimenti sarebbe rimasto consigliere regionale! E non ha voluto infierire sulle modalità di selezione dei parlamentari europei da parte del PD. Sarebbe stato davvero divertente.