La prima volta che lo incontrai era il 1981, in un appartamento angusto e carbonaro di una giovane coppia di compagni che erano anche i genitori del mio migliore amico dell’infanzia, quello con cui si spartivano i numeri delle ragazzine carine e le figurine Panini dei calciatori, che mai una volta fossi riuscito a completare la rosa del mio Torino.
Loro erano alieni per me che venivo da una famiglia borghesuccia di sinistra perbene, il mio amico chiamava per nome mamma e papà, il professore lavava e stirava, sulla credenza la foto di un signore trascinante le folle e dagli occhi spiritati (“Nico è tuo nonno?” ebbi l’ardire di chiedere un giorno, “No Richi quello è il grande Lenin, l’eroe dei miei” mi rispose l’amico mio amato che non c’è più, raccomandandomi di non chiedere loro se fosse della Juventus, come ero solito fare con tutti), in casa avevano un bimbo riccioluto che veniva dalla Polonia mandato da Solidarnosch, che io all’inizio pensavo una cosa tipo gli scout per gli operai; è lì che l’ho incontrato la prima volta, era grande come una coperta, povero di sole quattro pagine, lo sport non era contemplato e già questo me lo rendeva incomprensibile, ad 11 anni per un maschietto cresciuto nella polveriera Don Bosco è difficile pensare di leggere un giornale senza sport.
In quella casetta spartana che sentivo anche mia, lo ritrovavo sempre sulla tavola piegato in due e quasi non avevo coraggio di toccarlo, come una persona che presenti di sentire amica in anticipo sull’appuntamento della vita. Ci saremmo trovati ufficialmente nel 1986 quando Il Manifesto cambiò formato, aumentò la foliazione e mise anche un pizzico di sport e i programmi della tv, negli anni in cui Angelo Guglielmi dirigeva Raitre ed era fico dire agli amici che passavi la domenica guardando il talk (allora era solo un sobrio salotto familiare con tappeto stile asta) di Andrea Barbato, piuttosto che uscire per la partita del pallone. Andare al liceo con Il Manifesto e con Il Giornale di Montanelli era il mio modo di sentirmi libero, di fuggire le etichette semplici ma soprattutto di imparare l’arte del giornalismo, il lavoro che fin da bimbo sognavo per il mio destino e da cui tutti in casa cercavano di disamorarmi perchè “dove vuoi andare che qui nessuno è laureato e in famiglia c’è stato tutt’al più un giornalaio”. Due pezzi di Luigi Pintor o Rossana Rossanda e di Montanelli ti aprivano l’oceano dal punto di vista politico ma tra loro sentivi il profumo della fratellanza stilistica che solo tra Maestri si realizza; la sintesi, il linguaggio immediato, le frasi brevi, il pezzo che non girava all’interno, per dar modo al lettore la mattina in tram di leggerselo per intiero senza prendere a schiaffi il compagno di viaggio. Erano queste doti che ammiravo sbalordito anche perchè ai temi prendevo sempre mezzo voto in meno per la mia prolissità
Andare al Liceo Classico con quei due amici negli anni del reflusso del disimpegno e dell’edonismo reaganiano, a costo di accettare il soprannome ironico di “ragioniere” abbozzando un “vabè”, era un modo di volersi sentire grandi e partecipi ma liberi da gabbie perchè infondo la sinistra italiana era un animale morente in attesa che il muro di Berlino da una parte e tangentopoli dall’altra la seppellisse, ma la destra in Italia non era mai nata, Montanelli faceva fatica a contenere i conati reazionari di lettori che sarebbero presto corsi ad acclamareil predellino di Berlusconi lasciando il direttore solo con la sua macchina da scrivere da una parte e la sua libertà sul tavolo, stretta in una lettera di dimissioni.
Quel quotidiano “comunista” di un comunismo mai nato che era stato solo pensato come l’illusione di salvare la verginità di uno sguardo sognante dalle macerie devastanti del sovietismo internazionale, restò per anni un grande laboratorio giornalistico che ha sfornato talenti che avrebbero poi sfondato nella grande stampa, uno dei pochi laboratori di critica politica e di resistenza collettiva alla trasformazione dei partiti popolari in comitati elettorali agli ordini degli assessori, un giornale che compravi perchè anche se aveva torto non era mai banale nei punti di vista che ti proponeva.
Poi sarebbe arrivata la crisi dell’editoria, l’implosione della sinistra espressamente anticapitalistica, il calo verticale delle vendite fino al recente umiliante commissariamento con minacce serie di chiusura. Negli ultimi tre giorni l’impazzimento di tre prime pagine autoreferenziali, al termine delle quali la fondatrice Rossana Rossanda dal suo esilio di riposo parigino, sbatte la porta ai suoi figli redazionali accusandoli di “grillismo”, con non poco spirito beffardo, se pare proprio che molte copie negli ultimi tempi il giornale nato in via Tomacelli le abbia perse a favore del Fatto di Travaglio.
Agonizzante e ripudiato dai suoi padri superstiti quel compagno fedele della nostra giovinezza dovrebbe cominciare ad accettare l’idea che nella vita tutto, compreso i giornali, prima o poi finisce, che dirsi comunisti nel 2012 nel paese che non ha mai conosciuto uno straccio di riformismo capace di sopravvivere qualcosa in più di pochi mesi, è un vezzo un pò snobistico che non ha riflessi vivi nella società contemporanea, che non ha più senso essere eterodossi se l’ortodossia è data da Bersani e Rosy Bindi.
Chiudere per rinascere sparsi nell’Italia liquida e multiforme del nuovo secolo è molto meglio che morire di risentimenti, frustrazioni ed ingiunzioni debitorie. Per noi che gli abbiamo voluto bene per anni, basta il ricordo di quei titoli per pensare che a comprarlo non abbiamo avuto mai torto.
Ho la presunzione di pensare che anche il mio amico Nicola oggi la penserebbe così.