Quando ho letto della nomina di un canadese a governatore della Bank of England non sono riuscito a trattenere l’ironia – ormai gli inglesi stanno delegando all’estero l’intera gestione dell’economia. Industria automobilistica, infrastruttura (dagli aeroporti all’elettricità), cementifici, birrerie, per non citare Harrod’s e i cioccolatini Cadbury, sono posseduti o gestiti da stranieri. Altro che British Empire!
La verità è che gli inglesi hanno capito prima e meglio di noi quali siano i vantaggi di un’economia aperta. Investimenti e risorse umane sono fondamentali per la crescita e, se il mercato domestico non offre abbastanza al riguardo, tanto vale rivolgersi all’estero. Certo, non mancano le lamentele per la cattiva gestione di alcune società o i licenziamenti di presunta matrice straniera. E non è escluso che, dopo l’entusiasmo iniziale, al nuovo governatore Carney venga riservato dai media il “trattamento Capello”. Ma sarebbe intellettualmente disonesto ritenere la gestione straniera deleteria a prescindere. L’aeroporto “spagnolo” di Heathrow non sarà perfetto, ma fate un confronto con l’italianissimo Fiumicino. (Tra parentesi, magari avessimo scaricato il malloppo Alitalia ad Air France, anziché sprecare denaro pubblico in fallimentari “salvataggi”). Basta fare un giro a Londra per vedere gli effetti positivi dei confini aperti: settore immobiliare tenuto in piedi, dopo la crisi, dai capitali esteri; settore dei servizi che prospera grazie ai tantissimi stranieri che lavorano nella City; e noti marchi automobilistici britannici – da Mini a Jaguar – resuscitati da proprietari tedeschi e indiani, solo per fare alcuni esempi.
L’Italia ha accolto a braccia aperte molti lavoratori stranieri, ma solo per fare da tappabuchi agli italiani che negli anni buoni rifiutavano lavori percepiti come poco prestigiosi. Parlare di insuccesso nell’attrarre professionisti stranieri di alto livello è fin troppo generoso – non è stato fatto alcun tentativo al riguardo. Sul fronte dei capitali la situazione è ancora più imbarazzante. Andiamo col cappello in mano dagli arabi quando servono due lire per salvare banche sull’orlo dell’insolvenza, ma inventiamo scuse ridicole di sicurezza o prestigio nazionali se l’interesse straniero riguarda aziende solide. Siamo messi così male che il governo ha celebrato ufficialmente l’impegno del Qatar a investire €150 milioni nel nostro paese (o forse un miliardo su quattro anni) – bazzecole per un fondo sovrano di $100 miliardi, che ha speso un miliardo e mezzo di sterline solo per comprarsi Harrod’s. Da notare che il Qatar investirà in joint venture con il Fondo Strategico Italiano – navigare i meandri della nostra economia senza la scorta statale non è consigliabile.
La diagnosi del problema è ben nota. Bisogna semplificare drasticamente il panorama legale e burocratico e assicurare a qualunque investitore, italiano o straniero, lo stesso “level playing field” – regole chiare e applicate a tutti in maniera indistinta. Il capitalismo di relazione funziona forse tra italiani, ma se la controparte è straniera non serve un genio per capire da che parte penderà la bilancia. La verità è che abbiamo già perso il treno, ma se non ci muoviamo perderemo anche l’autobus. La concorrenza nel mercato dei capitali sta aumentando. Lo sa bene il sindaco di Londra, Boris Johnson: un paio di giorni fa ha pubblicamente deriso i francesi protezionisti, invitando gli indiani di ArcelorMittal a spostare le loro acciaierie oltremanica.
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