di Fabrizio Valenza
Nel nostro pulito e ordinato mondo occidentale siamo stati abituati a pensare fin dalla nascita che lo scopo della nostra vita sia sempre e comunque la vittoria. Dalla prima poppata all’inizio della vita scolastica, dal primo lavoro che troviamo alle fasi della nostra vita, il nostro cervello e le nostre azioni sono state educate a muoversi sempre in direzione della vittoria. Un obiettivo dopo l’altro, in un continuo superamento di noi stessi e degli ostacoli che ci impediscono di essere ciò che vogliamo essere.
Devi essere vincente, devi saperti risollevare. Devi apparire agli occhi degli altri e ai tuoi come uno che ce la fa, in un modo o nell’altro.
Provate a pensarci: quante volte, perfino nell’arco della stessa giornata, mettiamo in moto questo meccanismo? Molto spesso lo mascheriamo sotto varie giustificazioni: devo farlo per mia moglie, devo farlo per la mia famiglia, devo farlo per mio marito, devo farlo per i miei figli, devo farlo per i miei amici, devo farlo per gli altri, devo farlo per me stesso.
Perché, mi domando io. Perché? La parola fallimento è una di quelle capaci di evocare i timori più bui, di far tremare perfino la persona più solida perché se fallisce… è la sua stessa vita a venir messa in discussione.
Non scrivo questo post per fare un predicozzo, ma solo per suggerire la lettura di uno dei libri più belli di Paul Auster, capace di inquadrare la portata del fallimento nella vita di una persona che, con il senno di poi, il fallimento sembra averlo superato, divenendo uno dei più grandi scrittori dei nostri tempi. Proviamo a leggere l’incipit (e un po’ di più) del breve libro Sbarcare il lunario (Einaudi 1997, 117 pag.):
A cavallo dei trent’anni, vissi un periodo in cui tutto quello che toccavo si trasformava in fallimento. Il mio matrimonio si concluse con un divorzio, il mio lavoro di scrittore andò a picco, e mi ritrovai assillato dai problemi finanziari. Non sto parlando di penurie occasionali, o di periodiche tirate di cinghia, ma di una mancanza di denaro continua, oppressiva, soffocante, che mi avvelenava lo spirito generando una condizione di panico senza fine.
Non potevo rimproverare altri che me stesso. Il mio rapporto con i soldi era sempre stato deficitario, elusivo, ricco di impulsi contraddittori, e ora pagavo il prezzo del mio rifiuto di assumere sul problema una posizione decisa. Fino allora, la mia unica ambizione era stata quella di fare lo scrittore.
Si tratta di un libro, questo di Auster, che periodicamente rileggo. È motivazionale nel senso più alto del termine, perfino catartico, e non finisce per nulla bene. Si chiude sul fallimento più definitivo immaginabile per uno scrittore: decidere di gettare la spugna. Ripeto, però: sappiamo bene, oggi, chi sia Paul Auster, no?
Termino questo post con un interrogativo che mi permetto di lasciare ai lettori, mettendomici dentro per primo: e noi, ci siamo mai permessi di essere dei perdenti?