Una violenza endemica, nel mondo, nei rapporti fra uomini e donne. Una violenza incisa profondamente nelle strutture archetipiche dell’immaginazione e della cultura a cui apparteniamo, e per questo in qualche modo accettata. Chiamiamola con il suo nome: guerra. Una guerra sistemica, come quella che le leggi del profitto senza limite agitano contro i diritti umani sul pianeta. Una guerra combattuta con sequenze di crudeltà inaudita, perlopiù al riparo delle mura domestiche. Nella quasi totalità delle storie conosce una sola direzione: da lui a lei. Una bestialità che si manifesta con ossessiva scansione di delitti annunciati, talvolta sotto forma di esecuzioni pubbliche, non di rado davanti ai figli o agli altri familiari.
La mano che si arma contro una donna è quella di un marito, di un amante, di un padre, di un fratello. Le cause: una separazione, aspettative disattese, equilibri familiari che si vanno modificando, affermazione di ruoli e poteri che si credono minacciati.
Nel 70% dei casi – ci raccontano le statistiche – se una donna viene assassinata, il suo aguzzino era un convivente e, nel suo delirante fraintendimento, non di rado riteneva di essere pazzo di lei. Forse proprio per questo la violenza contro le donne è stata a lungo considerata un fenomeno trascurabile, legato alla sfera personale e alla patologia del singolo. Un fenomeno da relegare all’intreccio inspiegabile, perché ancora poco indagato, tra sentimenti d’amore ed esplosioni di odio incontrollato.
È così nei Paesi in cui stantie concezioni culturali e forme di diritto ispirate al fondamentalismo religioso relegano la donna a entità da possesso, umanità da sottomettere.
È così nella più laica Europa, dove le battaglie per l’emancipazione femminile non impediscono che la violenza rappresenti ancora la prima causa di morte delle donne nella fascia di età tra i 16 e i 50 anni. Così, in particolare, nel nostro rancoroso Paese, dove ogni due o tre giorni viene uccisa una donna. Da tre anni a questa parte i femminicidi – così si è scelto di chiamare questi delitti, in analogia con il genocidio, per decifrare la natura sessuata di questa violenza e soprattutto per marcarne la potenza distruttiva – sono aumentati in Italia di circa il 10% all’anno: un incremento maggiore rispetto a tutti gli altri Paesi europei. L’ennesima vergogna di un Paese slabbrato che ha attirato l’attenzione delle Nazioni Unite. Il primo rapporto della inviata speciale dell’Onu sulla Violenza contro le Donne, la sudafricana Rashida Manjoo, pubblicato lo scorso giugno, non fa sconti a nessuno, neppure alle donne, per il modo in cui l’Italia sottovaluta, nasconde, racconta, legittima gli assassini.
Se le donne non fossero la metà del genere umano, la metà cui spetta il governo sulla riproduzione della vita, se venissero piuttosto considerate per un momento come un’etnia, o un gruppo religioso, o una preferenza sessuale, non se ne potrebbe spiegare l’inerzia di fronte alla persecuzione. La rinuncia a un’autodifesa militante. Questo ragionamento varrebbe fin dal genocidio delle bambine prima e dopo la nascita in tanta parte del mondo (India e Cina capofila di questo scempio), che è sì altra cosa ma strettissimamente legata alla questione del femminicidio.
Facciamo fatica a togliere dalla cronaca nera la contabilità di queste morti e vederle per quello che sono. Non un raptus passionale, ma un’umiliazione che oltrepassa il corpo e la storia personale della persona uccisa per espandersi e dare senso alle altre donne, a tutte noi. Facciamo fatica nella narrazione e nella prospettiva ma qualcosa si muove, grazie alle donne, per dare spessore vero a questa grande ferita nella nostra convivenza. Che è innanzitutto un problema degli uomini. Che va assunta dalla politica e dalle istituzioni come una priorità assoluta.
Nicoletta Dentico, giornalista, impegnata nella cooperazione internazionale. Fa parte di “Se non ora quando” (Adista n. 43/12)