Esce questo weekend nei cinema italiani La sposa promessa, opera prima della regista israeliana Rama Burshtein. Ecco in anteprima la recensione
Nata e cresciuta a New York, a 26 anni Rama Burshtein si trasferisce a Gerusalemme per studiare cinema. Si diploma in regia alla “Sam Spiegel Film and Television School” e si converte all’ebraismo chassidico (i cosiddetti ebrei “ultra ortodossi”) cominciando ad esercitare la professione al suo interno. La sposa promessa (Fill the Void) segna il suo esordio nel lungometraggio: unico titolo israeliano in concorso al Festival di Venezia, Coppa Volpi alla giovanissima protagonista Hadas Yaron, il film è passato in concorso anche al London Film Festival e questo weekend uscirà nelle sale italiane.
La storia (ispirata da una storia vera) è questa: Shira proviene da una famiglia di ebrei osservanti, ha 19 anni e si sta preparando alle nozze (combinate) con un promettente allievo di una scuola religiosa. Quando una tragedia improvvisa si abbatte sulla famiglia, il suo futuro diventa incerto le sue sicurezze cominciano a vacillare.
Il trailer originale del film.
Prima della proiezione londinese, il produttore sale sul palco per introdurre il film con un’avvertenza per gli spettatori, quasi un’excusatio non petita: Fill the Void è un film su donne ebree chassidiche destinato al pubblico della comunità ebrea chassidica, “nel caso vi facciate domande su quello che accade sullo schermo.” Dopo un’ora abbondante di film, il messaggio diventa chiaro: al netto dell’esotismo dell’ambientazione, la storia raccontata ne La sposa promessa esce a fatica dal triangolo lei-lui-suocera, risolvendosi in una versione annacquata delle trame al femminile di Jane Austen.
C’è però una qualche forma di complessità, che potrebbe attrarre ne La sposa promessa e che per molti versi mi ha fatto pensare a un film di tutt’altro spessore e opposti orientamenti religiosi: Una separazione di Asghar Farhadi, trionfatore alla Berlinale 2011.
Linguisticamente, infatti, i due film sono molto simili: una regia pulita, classica, fatta di campi medi e primi piani, una cura maniacale della fotografica e dei colori, l’uso strumentale degli spazi – prevalentemente domestici, solo incidentalmente legati a un “fuori” concreto e reale. Una corrispondenza che si ritrova sul piano narrativo: sia il film di Farghadi sia quello della Burshtein raccontano storie “piccole”, private, praticamente ridotte alla cerchia famigliare. Non solo, ma ne Una separazione come ne La sposa promessa le motivazioni che guidano i personaggi sono spesso incomprensibili e irragionevoli per uno sguardo esterno.
In Una separazione, tuttavia, i limiti cinematografici sono il risultato di ingiuste imposizioni censorie: ogni inquadratura, ogni sguardo, ogni suono hanno insieme un significato e il suo doppio critico sullo schermo, in una costante ricerca di nuove, sempre più ingegnose forme di libertà espressiva per eludere un regime opprimente. Una distanza critica che manca del tutto ne La sposa promessa, in cui l’insieme di regole della comunità religiosa è messo in scena nel senso più letterale e schematico del termine: abbracciato, condiviso e mai discusso, se non in qualche battuta ironica o dialogo comico dei suoi membri.
Sinceramente, da un film in concorso in più di un Festival internazionale, diretto da una donna (cosa più unica che rara, stando ai numeri), mi aspettavo qualcosa di diverso, forse di meglio.