Parlando di Siria posso vantare un tristissimo primato. Sono stato uno degli ultimi turisti (dire oggi questa parola non è certo il massimo) ad aver varcato le porte dello stato di Bashar al-Assad. Dodici giorni in auto percorrendo tutto il perimetro del Paese: da Damasco ad Aleppo. Poi i territori curdi, il confine con l’Iraq e Deir Ezzor e il sud a Dar’a, primo avamposto della rivolta. Dire che avevo notato nella popolazione i germi di una guerra civile imminente, le prime ribellioni sarebbero iniziate dopo un solo mese, sarebbe una bugia da giornalista cialtrone.
E quindi non lo dico. Anzi i discorsi che in quei giorni tenevano banco tra me, l’amica con la quale feci il viaggio e i tanti ragazzi, donne, adulti, ricchi e poveri che abbiamo incontrato erano quasi sempre positivi. Pensavamo al regime, vedevamo la povertà di alcune città (i segni della strage del 1982 ad Hama erano ancora presenti), ma tutto sommato la parola che si ripeteva più spesso era dignità. E ancora sicurezza. Ricordo i giri notturni senza meta nelle vie di Aleppo e Damasco, la notte passata (senza averlo pianificato) in una tenda nel mezzo del deserto ospiti di un gruppo di beduini. Ricordo il volto di Msalam, un architetto (almeno così aveva detto a noi) che ci ha agganciato e accompagnato per tutta la nostra permanenza a Damasco. Appariva e scompariva (alcuni viaggiatori francesi, nella città da qualche mese, ci hanno detto che era un uomo dei servizi segreti di Assad incaricato di controllare i turisti).
E ancora il ricco importatore di vestiti italiani che in un ristorante ci ha avvicinato per parlarci di Assad, dicendo di conoscerlo personalmente e di stimarlo: «Un presidente illuminato, come sua moglie Asma». Ricordo anche il volto dell’unico spacciatore di alcolici nel quartiere cristiano di Damaco: serate passate in un bugigattolo a parlare con uomini d’affari turchi, russi, poveri locali, ubriaconi, pellegrini francesi. Perché parlare oggi di tutto questo? Quando siamo stati in Siria l’unico tremendo ricordo ancora vivo, raccontato dai tanti amici incontrati (che oggi non so neppure che fine abbiano fatto) era quello della strage ad Hama del 1982. Una città che dopo trent’anni e 10mila morti durante la repressione di Bashar padre contro la rivolta dei sunniti, portava ancora tutti i segni e le ferite. Il resto sembrava solo tolleranza e convivenza. Parole che oggi fanno abbastanza ridere e sembrano uscire dagli occhi di un turista sprovveduto, viziato, europeo e miope.
Si continua a morire Intanto in 20 mesi di guerra civile si contano 40mila morti, migliaia di profughi in Giordania e in Turchia. Tra ieri e oggi negli scontri a Damasco (nei quartieri meridionali si combatte senza tregua) e nel resto del Paese 100 persone hanno perso la vita; qualsiasi tentativo di mediazione internazionale in tutti questi mesi è sembrato vano. Sempre oggi secondo L’osservatorio siriano per i diritti umani dieci bambini sono morti a causa dell’esplosione di alcune bombe a grappolo su un campo da calcio a 12 chilometri da Damasco. E la battaglia per il controllo dei punti strategici e delle basi militari non si ferma. La frattura nel popolo siriano sembra incolmabile. Sunniti – la maggioranza del Paese – contro l’élite alawita ormai zoppicante.
Polveriera mediorientale Domani una delegazione militare Turchia-Nato dovrebbe fare un’ispezione lungo i confini nord per istallare batterie di missili Patriot che, come dichiarano da Ankara, «dovrebbero avere solo funzione difensiva». Solo tre Paesi Nato (Usa, Germania e Olanda) possiedono missili Patriot. Insieme alle batterie forniranno anche 80 uomini su ognuna di esse. Sul fronte internazionale qualsiasi mediazione messa in piedi in questi mesi non ha dato alcun frutto. Cina, Russia e Iran continuano a essere sostenitori del regime (visto gli ingenti vantaggi in campo strategico garantiti da una permanenza di Assad). Il resto del mondo, con gran parte degli stati arabi, sostengono i ribelli soprattutto con l’invio di armi. Diversi agenti della Cia e dell’MI6 sarebbero sul campo per fornire armamenti e mezzi ai ribelli. Di certo nessuno a livello internazionale ha voglia di esporsi, perché toccare la Siria significherebbe con molta probabilità accendere un fuoco che potrebbe divampare in tutta la regione e oltre.
Le banconote e i russi Oltre a fornire armi all’esercito del dittatore Assad la Russia avrebbe inviato cargo pieni di banconote. Infatti le sanzioni europee e americane impedirebbero ad Assad l’accesso alla banca austriaca che stampava i soldi del Paese. Si parla di otto voli, da Mosca a Damasco, con 30 tonnellate di soldi. Lo rivela ProPublica (organizzazione non profit con base a New York che si occupa di giornalismo investigativo) che sottolinea come dal 9 luglio al 15 settembre sarebbero arrivate in Siria 240 tonnellate di banconote. In questo modo la Russia, sempre secondo ProPublica, difenderebbe il regime di Assad non solo a livello militare, ma anche finanziario.
Foto: ©reuters 2010, ©afp 2012