CineteatroraGoli Otok, l’isola nuda degli orrori

Esistono cantiche dantesche che narrano la storia e i suoi obbrobri contro il più totale e imposto silenzio. O meglio, contro quell’omertà inutilmente spesa per preservare intatta la porcellana dei...

Esistono cantiche dantesche che narrano la storia e i suoi obbrobri contro il più totale e imposto silenzio. O meglio, contro quell’omertà inutilmente spesa per preservare intatta la porcellana dei tiranni. Esiste la violazione del prima, durante e dopo le ottusità ideologiche e repressive, di fronte a guerre e torture che privano della forza naturale di resistere.

La vicenda di Goli Otok – l’isola nuda adibita a campo di concentramento nell’era di Tito dopo la rottura con Stalin nel 1948 – rinserra nella violenza del “ravvedimento” tutti i “traditori” del partito comunista rimasti fedeli all’URSS e, per questo, accusati di Cominformismo e internazionalismo. Dietro la cortina di un orrore silente per decenni, fanno capolino testimoni come Aldo Juretich, un comunista nato a Fiume negli anni Venti, che decide di riversare sul futuro incosciente quarant’anni di insonnia dovuti a 24 mesi di “lavori di pubblica utilità” sull’isola di Goli Otok.

Il primo ascolto gli viene da uno che di mestiere fa il poeta e scrive per La voce del popolo, Giacomo Scotti, oggi ottantaquattrenne alla terza edizione del saggio che attorno a quello sterminio raccoglie non soltanto la versione scomoda di Juretich, ma anche le voci di altri tra le migliaia di internati partigiani, iscritti al partito comunista jugoslavo, scrittori e intellettuali, ma anche ex agenti dell’Udba, la polizia segreta preposta all’arresto degli avversari di Tito.

Mentre racconta, Aldo confessa di soffrire della sindrome di offuscamento delle idee, vorrebbe fuggire perché i dolori delle ferite sono lancinanti, ma poi sfoga e non risparmia dettagli, lui che è stato additato tra i traditori del nazionalismo jugoslavo e perciò costretto alla deportazione dalla baia di Buccari, nota per la beffa dannunziana, fino a Goli Otok, in mezzo a una fitta e lurida tribù di vecchi compagni di Resistenza. Tra loro c’è chi ha già affrontato i campi nazisti, ma presto dirà che meglio un mese a Dachau che una settimana a Goli Otok, dove l’oppressione è più efferata poiché si consuma nell’“autogestione del terrore”, una precisa regia.

Quel grido unanime e inascoltato, fatto di processi serali con interrogatori che disumanizzano parole e ossa, è ora adattato in lettura scenica per le voci di uno straordinario Elio De Capitani cui è affidata la reviviscenza tragica di Juretich accanto a Renato Sarti che, con misura sensibile ed eco dei passaggi più cruciali, lo affianca nei panni di un medico croato bisognoso di sapere la verità per sé e per la figlia prossima alla laurea. I due uomini si fanno più volte coro di una materia congelata dagli onori di un impero responsabile della fame e della sete, di vesciche e botte quanto del trasporto di massi di pietra con lacci più corti e pericolosi per chi non si è ancora pentito.

Ecco i lavori di pubblica utilità in mezzo a una massa di rivoluzionari idealisti costretti per salvarsi a fare abiura denunciando colpe mai commesse, facendosi assassini di altri compagni, obbligandosi a un terrore del dopo che ha reso Goli Otok l’isola inesistente e sconosciuta a cronache e manuali di storia. Come Aldo evitava qualsiasi contatto con gli estranei, così chiunque fosse indirettamente cosciente di quel marchio orrendo contribuiva a un isolamento totale che a tutt’oggi, dopo la disgregazione della Jugoslavia, prova quanto uomini e apparati continuino ad assomigliarsi nella retorica del ravvedimento concentrazionario.

In una scena povera, con un tavolo grigio e snodi musicali composti da Carlo Boccadoro, tra una corporeità dilaniata e l’inferno di un’ideologia cieca, De Capitani è Aldo ogni volta che ricorda gli editti ufficiosi per cui le mogli dei deportati di Goli Otok erano costrette a divorziare per non dimostrarsi complici, o mentre ammette quanto quel delirio di sopravvivenza tra coperte lerce e dissenterie mortali sia stato la propaggine orribile di un capo del popolo che ha ingannato la moltitudine dopo aver costruito un esercito di 800.000 uomini.

Eppure, quanti di noi parleranno ancora di Goli Otok? Chi ne avrebbe voluto fare un’isola per nudisti o nega che sia esistita un’infamia che faceva sparire i cadaveri e torturava fino allo stremo, forse troverebbe consolazione nella morte di Aldo Juretich. Uno che credeva di non aver mai sfiorato il coraggio, ma di aver avuto paura tutta la vita. Uno che ha parlato per non chiudere gli occhi. Di certo, la scrittura e la collettività del teatro non consolano né celebrano vittorie o levano sconfitte, ma sono strumenti di una sofferenza privata che può ancora farsi megafono di diritti umani.

produzione Teatro della Cooperativa

coproduzione Mittelfest

GOLI OTOK isola della libertà

LETTURA

da un progetto di Elio De Capitani e Renato Sarti

testo Renato Sarti

con Elio De Capitani

e Renato Sarti

musiche Carlo Boccadoro

si ringraziano Giacomo Scotti (autore del libro Goli Otok) e Ada Juretich

X