A mente freddaI problemi dell’università sono i problemi del paese

Dopo il mio ultimo post "celebrativo" dei 100 contributi a questo blog, in cui notavo l'apparente paradosso di uno spazio di riflessione nello stesso tempo letto da migliaia di persone ma sostanzia...

Dopo il mio ultimo post “celebrativo” dei 100 contributi a questo blog, in cui notavo l’apparente paradosso di uno spazio di riflessione nello stesso tempo letto da migliaia di persone ma sostanzialmente ignorato nei suoi contenuti, visto che ci commentava il novantanovesimo post non aveva la minima idea del discorso che avevo cercato di mettere in piedi in quelli precedenti, alcuni amici mi hanno dato un suggerimento che mi ha fatto riflettere: probabilmente, potrei essere più incisivo se individuassi fin dal nome del blog, e mi occupassi esclusivamente di, un tema sul quale ho una specifica formazione di ricerca, e sul quale i miei contributi sono risultati più letti, apprezzati e condivisi, ovvero il tema dell’università e della formazione superiore, se insomma chiarissi in modo “forte” l’aspetto tematico della mia pagina.

Il suggerimento coglieva nel segno di alcuni problemi che avevo percepito, e per questo ci ho pensato sopra. Ma sono giunto alla conclusione che la questione non è così semplice. Credo infatti che se mi concentrassi sui problemi della nostra vita universitaria sicuramente gli argomenti non mancherebbero, ma rischierei di inaridire il mio discorso. Infatti, più vado avanti più ritengo che i problemi delle nostre istituzioni accademiche siano innanzi tutto i problemi della nostra società, e che non si possa discutere di una maggiore efficienza delle università senza guardare alla necessità di riforme decisamente più ampie delle istituzioni, dei rapporti economici e sociali, della gestione dei beni pubblici.

Detto in estrema sintesi, oggi come oggi l’Italia esprime l’università che può permettersi per le sue inefficienze sociali: anzi, chiunque di noi abbia lavorato in un centro di ricerca estero si è accorto che, almeno in alcune sedi di punta, la nostra alta formazione garantisce l’accesso a livelli di competenza e di esperienza paragonabili a quelli dei migliori esempi esteri, seppur a fatica; un confronto del genere sarebbe invece del tutto improponibile per ampi settori della nostra pubblica amministrazione, per la nostra classe politica, per la nostra classe imprenditoriale. Di conseguenza, ntervenire con una o più riforme dell’assetto giuridico degli atenei forse potrà garantire qualche palliativo (finora, peraltro, nessuna riforma in sede di applicazione ne è stata capace), ma non muterà la struttura delle cose.

Il reclutamento fondato sulla soddisfazione di interessi corporativi, familiari e “territoriali”, di cui ho già parlato a più riprese; una gestione dei fondi che taglia i settori più efficienti per finanziare lo spreco; un mercato del lavoro bimodale in cui chi è assunto è inamovibile mentre chi è precario mantiene o perde il posto senza che la scelta sia in alcun modo legata alle sue capacità e a quanto è stato in modo di dimostrare nel corso degli anni; un sistema di riscossione delle tasse che si abbatte sempre sui soliti noti per risparmiare chi può permettersi di aggirarlo, senza che si vada oltre la condanna morale degli evasori “cattivi” e si proceda a riforme operative che rendano questa possibilità più difficile: tutti questi elementi sono palle al piede, nello specifico, del mondo universitario, ma lo sono perché caratterizzano sostanzialmente ogni aspetto del mondo del lavoro e della gestione di introiti e spese della pubblica amministrazione. E non si può capire come effettivamente stanno le cose, per quali ragioni sono degenerate e come si può rimediare, se non si prende in considerazione tutto il contesto.

Su questo discorso può aiutare un esempio. Il commento che ho ricevuto qualche giorno fa a un mio post sui caratteri del reclutamento universitario,

Dott. Mariuzzo…vuole divertirsi un po’? Vada a controllare quanti sono i figli di medici che nonostante un curriculum scolastico non soddisfacente riescono ad arrivare tra i primi posti nelle selezioni all’università di medicina. Non penso diventino dei geni all’improvviso e siano folgorati da illuminazione celeste giusto davanti ai test!,

e da me già citato per lo stupore di vedermi proporre, come interpretazione alternativa della realtà, un luogo comune così diffuso che è assurdo pensare non abbia considerato proprio come punto di partenza per un esame più attento, è significativo anche per altri aspetti. In particolare, perché ricorre a un esempio che col reclutamento dei docenti non ha granché a che fare, ma riguarda il potere di intervento nella propria “riproduzione” di un’altra influente categoria professionale, quella dei medici. E chiunque entri in una farmacia o si rechi da un notaio sa bene che la continuità familiare delle professioni non è certo un problema esclusivo dei nostri atenei o dei nostri ospedali. E non è nemmeno limitato alle “professioni liberali”, visto che per il figlio di chi ha un negozio o una piccola impresa (lo so anch’io, che come ho raccontato ho fatto un’altra scelta non certo ricevendone benefici economici) è sempre e comunque proseguire l’attività paterna, vista l’estrema difficoltà a entrare in un mercato, e gli enormi vantaggi che possiede chi può contare di una licenza già pagata, di un pacchetto-clienti adeguato, di rapporti di fiducia con le banche già oliati.

Ecco: le tanto strombazzate norme “anti-parentopoli” applicate alle assunzioni universitarie sono partite dal presupposto che quello delle agevolazioni di natura familiare ai percorsi di carriera fosse da un lato il solo problema rilevante nelle assunzioni di nuovo personale docente, dall’altro che fosse un problema specificamente limitato all’ambiente dell’istruzione superiore. La seconda affermazione, abbiamo visto, è una sciocchezza. La prima, ha condotto a norme che prima di tutto sono inutili, perché si concentrano su un solo, specifico sottoinsieme di assunzioni inefficienti, mentre in realtà l’intero meccanismo dei concorsi è gestito secondo logiche “privatistiche” e quindi inadeguate alla bisogna, anche quando non coinvolge familiari di docenti; in secondo luogo, sono dannose, appunto perché deviano l’attenzione dalle storture del sistema ad alcuni specifici casi immediatamente individuabili grazie all’omonimia, in una sorta di gioco di prestigio che impedisce di prendere in considerazione i problemi reali.

Ma il discorso vale anche su un piano generale. Tutte le soluzioni alle questioni universitarie proposte in questi ultimi anni (ormai, direi, decenni) sono partite dal presupposto che il mondo accademico sia uno spazio separato e autonomo dal resto del paese, e che i problemi che lo affliggono si generano siano esclusivamente endogeni. E i risultati sono sempre stati rimedi peggiori del male, perché cercavano (ovviamente senza possibilità di successo) di aggredire problemi singoli, sostanzialmente scambiando i sintomi per le cause. Invece, almeno per quello che mi è dato di capire, non si può parlare dell’efficienza della nostra università se non si tengono continuamente gli occhi aperti sulla capacità di azione e sulla rappresentatività delle istituzioni e delle forze politiche a cui è demandata la gestione degli studi superiori, alle dinamiche del mercato del lavoro in generale, alle criticità del nostro sistema di tassazione, alla deriva corporativa dei rapporti tra le parti sociali, in generale alla cultura delle relazioni interpersonali e dei comportamenti collettivi di una comunità nazionale di cui la nostra università è partecipe a pieno titolo, visto che ad essa offre una molteplicità di servizi essenziali.

Di un approccio diverso, più chiuso e “mirato”, a questi problemi, sono portato a diffidare. Pagine web e gruppi di lavoro che si dedicano ai temi della ricerca scientifica e dell’istruzione universitaria con molto maggior impegno (e spesso molte più braccia) di questo sito hanno spesso prodotto contributi egregi, che anch’io ho usato a più riprese, ma appunto nel tentativo di delimitare il loro campo d’indagine hanno spesso finito per avvitarsi su se stessi: la (generalmente convincente) critica alle iniziative di riforma governative non è poi sbocciata nell’elaborazione di un’alternativa che avesse consistenza autonoma. Sempre più spesso, infatti, da quelle parti lo sfondo propositivo di numerosi interventi sembra quello di una vaga nostalgia per gli assetti precedenti ai cicli di riforma degli anni Novanta, o di critiche così generali al nostro tempo da individuare, in pratica, la soluzione a tutti i problemi nel superamento del capitalismo.

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