A mente freddaIl “concorsone” per la scuola: una procedura “diversamente di successo”

Ieri sono scaduti i termini per l'iscrizione al concorso per i posti di insegnamento nelle scuole medie e superiori, aperto ormai diversi mesi fa. Per dare notizia dei primi dati ad esso relativi, ...

Ieri sono scaduti i termini per l’iscrizione al concorso per i posti di insegnamento nelle scuole medie e superiori, aperto ormai diversi mesi fa. Per dare notizia dei primi dati ad esso relativi, Repubblica è uscita con un pezzo firmato da Salvo Intravaia e Corrado Zunino (ci si sono messi in due) i cui toni suscitano qualche perplessità:

Il concorsone pubblico per insegnanti di scuole elementari, medie e superiori è stato un successo, come prevedibile. Ieri alle 14, giorno e ora di chiusura, al sito del ministero dell’Istruzione erano arrivate 320.494 domande di abilitati all’insegnamento, precari inseriti in graduatoria eppure pronti alla nuova sfida, laureati di vecchio conio. […] Undici mesi fa “Repubblica” rivelò la volontà del ministro Francesco Profumo di riattivare una macchina – quella dei concorsi pubblici per la scuola – ferma da tredici anni. Profumo si era appena insediato, l’ipotesi dei suoi uffici era quella di un maxi-bando da 300 mila persone. Ora la prima parte del percorso si chiude con le previsioni numeriche e i tempi rispettati.

Nelle intenzioni del ministro Profumo, […] il nuovo bando avrebbe dovuto riaprire la scuola ai docenti giovani “ed evitare di bloccare una generazione di neolaureati”. Il risultato, visti i dati che l’ufficio statistica del ministero sta analizzando, sembra centrato: l’età media dei partecipanti al concorso è di 38 anni e sei mesi e abbassa di dieci anni la media dei docenti oggi insediati.

In questo mesi, io ho commentato solo tangenzialmente una procedura concorsuale che gli interessati hanno subito guardato con occhio molto critico, perché andava a confliggere con altri sistemi di reclutamento attivi senza alcun coordinamento, ma anche perché nella migliore tradizione italiana trasformava, con le sue limitazioni di età e requisiti che nulla avevano a che vedere con le capacità professionali, un istituto per natura inclusivo e di apertura dei ruoli pubblici alle competenze migliori in uno strumento per assegnare , in modo solo parzialmente controllabile sul lato della qualità, il privilegio di qualche posto fisso inamovibile nella selva dei lavoratori precari del settore. Uno sforzo di comprensione e di analisi decisamente maggiore, per ovvie ragioni di interesse, ha svolto la redazione del blog collettivo PrecarieMenti, che ormai da anni si interessa della condizione dei lavoratori della cultura privi di tutele e stabilità, e che nel corso del tempo ha fatto del focus sui precari dell’insegnamento medio un suo tratto distintivo.

Ieri, sulla sua pagina Facebook, la redazione ha rilanciato il commento all’articolo di Repubblica di un’addetta ai lavori con cui è in contatto, che mi sento di condividere. Tale risposta, infatti, mette in evidenza in barba alla superficialità del pezzo di Zunino e Intravaia le criticità di un provvedimento improvvisato, impostato secondo la logica del “facite ammuina” che ormai sembra caratterizzare un ministero il cui bisogno di una politica di radicale discontinuità col passato è tale da non ammettere, ancora più che in altri ambiti, il piccolo cabotaggio a cui costringe un’amministrazione “tecnica”.

In primo luogo, sul numero di domande:

Repubblica definisce “Un successo” il Concorsone per la scuola, perché invece di 160mila persone hanno fatto domanda in 320mila. Ma questo non è un successo. Questo è un fallimento, in primis per la scuola italiana. Vuol dire che hanno fatto domanda per poter diventare insegnanti persone che non hanno mai insegnato, persone che avevano scelto una professione diversa, nella vita, ma che evidentemente sono ancora precarie e hanno fatto ricorso alla scuola come ultima possibilità di un posto fisso. Questo non è un successo, questa è disperazione, è guerra tra poveri. Guerra tra chi ha scelto questo mestiere, ha acquisito una professionalità, si è specializzato, e chi ha semplicemente bisogno ed è mosso da tutto tranne che dalla vocazione che tanto predicano. Sicuramente si tratta di persone che, per quanto preparate, si stanno per scontrare con un mondo diverso da quello che ricordano dai tempi del liceo.

Poi, sull’età media apparentemente più contenuta rispetto a chi è già in ruolo, si mette giustamente in evidenza che quei 38 anni e mezzo circa di valore medio devono essere considerati a fronte sì di un relativo ringiovanimento, dovuto però esclusivamente alla presenza degli abilitati dalle Scuole di specializzazione degli anni Duemila, ma anche a fronte del fatto che molti degli abilitati già in cima alle graduatorie non parteciperanno, semplicemente aspettando l’ingresso in ruolo nell’attesa del guale sono invecchiati. Il tutto nell’ambito di un concorso che ha posto per i non abilitati, e quindi per quella che dovrebbe essere la vera immissione di personale nuovo nel “giro” dell’insegnamento medio, un tetto massimo di anno di laurea che sostanzialmente taglia fuori tutti gli under 30:

L’età media dei partecipanti è di 38 anni e sei mesi “centrato lo svecchiamento della scuola”. 38 anni?? Ma il Ministro non doveva favorire gli under 30? c’è gente che è invecchiata, in graduatoria. Il tetto di ammissibilità per non abilitati al concorso era una laurea conseguita nel 2002. Dunque parliamo di persone con non meno di 35 anni di media, e di una larga fetta di laureati davvero giovani (laureati dal 2004 in poi) tagliata fuori arbitrariamente.

Non mi resta che chiudere questo pezzo con una piccola impressione personale. Chiunque abbia avuto a che fare con gli uffici amministrativi del MIUR che gestiscono le procedure di reclutamento e di accesso a fondi di ricerca, ha avuto modo di sperimentare un tipo di linguaggio che traspare fin troppo chiaramente dall’articolo di Repubblica da cui sono partito: espressioni coniate nel continuo tentativo di trovare conferme della linea operativa predeterminata in una realtà che le smentiva, e nella necessità di non fare nemmeno di fronte all’evidenza ammissioni scomode (in particolare, per tutte le scelte rese obbligate dalla mancanza di fondi di solito si trovano giustificazioni diverse, di solito più d’una e tutte in contrasto tra loro, perché evidentemente il fatto che il denaro manca non si può dire). Leggendo il pezzo “incriminato” io ho avuto la stessa impressione, e mi è parso di confrontarmi con uno dei tanti comunicati pubblici o con una delle risposte private preordinate che di solito producono gli uffici di gestione di PRIN e FIRB o i portavoce dell’ANVUR. Mi è parso, insomma, che i giornalisti abbiano ricevuto un comunicato già preparato e che non abbiano in alcun modo filtrato criticamente i giudizi e le impressioni che esso suggeriva. Non è molto professionale.

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