di CRISTIAN IOZZELLI – http://www.officinedemocratiche.it
La tromba d’aria che si è abbattuta sull’Ilva di Taranto come punizione per tutte le malefatte compiute a danno degli abitanti della città? Se non fossero coinvolte delle vite umane, tra l’altro gli stessi operai e cittadini ai quali va tutta la nostra solidarietà, l’associazione tra gli eventi atmosferici e i decenni di scelte scellerate che hanno portato alla chiusura dello stabilimento non sarebbe così azzardata.
Già, perché nelle stesse ore sono uscite le anticipazioni della bozza di decreto alla quale sta lavorando il governo. Obiettivo dichiarato, permettere all’azienda di proseguire la sua attività per altri due anni. “Non è accettabile mandare al macero 20mila posti di lavoro”, ha detto il ministro Fornero, e dichiarazioni simili sono trasversali ai diversi schieramenti politici e al mondo sindacale.
Si tratta di una posizione difficilmente contestabile nella sua banalità. Chi può non avere a cuore il destino di 20mila persone e di altrettante famiglie? Ma siamo sicuri che un’ennesima proroga sia la soluzione corretta? Sull’Ilva c’è una strategia di fondo o si continua ancora a non affrontare la vera questione, finendo con lo scaricare i problemi sulle generazioni future?
Le vicende di questi ultimi mesi sono emblematiche. Il 26 luglio il Gip Patrizia Todisco emette un decreto di sequestro preventivo degli impianti, decisione confermata dal Tribunale del Riesame di Taranto. Nonostante i provvedimenti giudiziari che si succedono la produzione non si ferma. L’azienda presenta un primo piano di investimenti per risanare lo stabilimento ma fin da subito lo sottopone alla condizione di poter continuare a produrre. Il piano viene bocciato dai custodi giudiziari e dalla procura.
In breve, da varie parti si cerca di creare un conflitto tra operai e magistrati, di contrapporre diritti costituzionalmente garantiti come la salute e il lavoro, imponendo così una sorta di dilemma morale senza via d’uscita.
Nel frattempo cominciano ad arrivare i primi dati scientifici sulle conseguenze dell’inquinamento prodotto dall’Ilva, evidenti nella loro drammaticità. La mortalità a Taranto è più alta rispetto al resto della regione del 14% per gli uomini e dell’8% per le donne e ci si ammala di tumore molto di più (30% per gli uomini, 20% per le donne). Secondo il biomonitoraggio nelle aree intorno all’Ilva, latte di capra e cozze allevate vicino allo stabilimento sono contaminate dalle diossine, ben oltre i limiti di legge. Un altro studio afferma che nei quartieri più vicini allo stabilimento si registra “una mortalità totale più elevata”, con “eccessi compresi tra 20 e il 400%″ per varie patologie.
E la politica cosa fa? Nel mese di ottobre il governo rilascia all’azienda la nuova Autorizzazione integrata ambientale, il documento (leggi il testo integrale) che contiene le prescrizioni che l’azienda deve obbligatoriamente seguire per poter continuare a produrre. Un documento che suscita fin dall’inizio pesanti critiche, da parte di ambientalisti e cittadini. L’incongruenza più evidente? L’obbligo imposto all’azienda di ridurre la produzione da 15 a 8 milioni di tonnellate, quando 15 milioni di tonnellate è la capacità massima potenzialmente prevista mentre la produzione media storica dello stabilimento è proprio di 8 milioni di tonnellate. Come dire, continuate pure a produrre a piacimento. Eppure, a seguito del documento l’azienda presenta un nuovo piano di interventi diluiti in tre anni, che ottiene l’ok dal Ministero dell’Ambiente. Il resto è cronaca degli ultimi giorni: l’azienda presenta un aut-aut alla magistratura: o si revoca il sequestro o si chiude. In alternativa, vengono paventati scenari apocalittici per la sicurezza. La Procura nega per l’ennesima volta la facoltà d’uso degli impianti, e l’azienda decide di forzare la mano e procedere alla chiusura dello stabilimento.
Il caso Ilva diventa così il simbolo del fallimento delle politiche industriali di un’intera generazione di ministri dello Sviluppo economico. La colpevole disattenzione di politici, sindacati e amministratori locali nei confronti di un’azienda i cui vertici sono oggi indagati per associazione a delinquere, disastro ambientale e corruzione non è più accettabile. L’unica via è il risanamento ambientale, che però richiede un piano di investimenti serio, di almeno 2 miliardi di euro, e non le briciole finora messe sul piatto dall’azienda. La proroga dell’apertura per decreto è un palliativo, per imporre la bonifica ambientale non c’è bisogno di nuovi decreti, basta rispettare le leggi esistenti: perfino le autorità locali hanno il potere di imporre la messa in ripristino. Lo stabilimento deve restare aperto, l’azienda deve dare garanzie di bancabilità e l’operazione di bonifica ambientale deve essere fatta.
Finora la politica e i sindacati hanno ritenuto conveniente girare la testa dall’altra parte. L’Ilva dà lavoro, è un ammortizzatore sociale importante, è inutile pensare ad alternative produttive per il territorio. L’azienda inquina? Pazienza, non è un problema nostro, gli effetti si vedranno tra anni e magari ci penseranno le generazioni future.
Ma stavolta no, non può e non deve prevalere la vecchia logica del rimandare sempre i problemi. Il momento delle decisioni è adesso, ma per prendere decisioni serie e definitive occorre una nuova classe politica, che sia libera da compromessi con il passato e sia capace di rappresentare una nuova visione del mondo.