Frequento i miei simili.
Forse per spirito di sopravvivenza.
Quelli che per vivere hanno scelto – o sono stati costretti a farlo – la libera professione di consulente.
C’è la categoria di quelli che hanno scelto perchè spiriti liberi e quelli che pur di lavorare han dovuto aprirsi una partita iva.
Io faccio – grazie a qualsiasi dio – parte della prima schiera di combattenti. Avrei potuto continuare a fare la dipendente, stipendio garantito, nessuna apparente rottura di coglioni, responsabilità limitata, sonni più o meno tranquilli, tutele, ecc. ecc.
Ma come i miei simili sono uno spirito libero, che non si fa stritolare da niente e nessuno.
I miei simili hanno imparato a scivolare come lama sul proprio passato e non prendono nè danno lezioni.
Semplicemente sanno fare una cosa, la sanno far bene, l’hanno fatta per giorni e ore e adesso quel loro bagaglio di esperienza, conferme, errori provano a venderlo.
Ma vendere una competenza è più difficile che vendere qualsiasi prodotto, di qualità o di prezzo, fatto bene o fatto male.
Nella Serenissima di consulenti ne sono nati di ogni specie. Tra qualche giorno la creatività veneta, sfornerà consulenti su come addobbare gli alberi di Natale e cosa scrivere nei biglietti di auguri o con l’inizio del nuovo anno ci saranno i consulenti su come affrontare il nuovo calendario.
Io ne conosco uno. Quando dico conosco è perchè potrei passarci sopra con la macchina e fare retromarcia senza provare un minimo senso di umana pietà, pentimento o rimorso.
E’ un uomo vecchio. Non solo all’anagrafe. Si chiama Paolo.
E’ uno di quelli che hanno contribuito a rovinare la categoria dei consulenti.
Rovinarla al punto di paragonarla ai venditori del Folletto piuttosto che dei contenitori tupperware.
Rovinarla al punto che, pur avendone estrema necessità, il potenziale cliente apre più facilmente le porte alla GdF che a chi suonando si annuncia come consulente.
Paolo (ma come lui penso potrei fare un nome per ogni lettera dell’alfabeto) ha fatto i soldi sul portafoglio e sulla pelle delle piccole falegnamerie della bassa padovana sconfinando nella gloriosa marca e provando ad avvicinarsi a quelle del polesine.
Io non sono invidiosa del fatto che lui abbia fatto i soldi, anzi sono sempre stata a favore e propensa alla teoria che se un essere umano guadagna soldi dopo li spende alimentando quel semplice circolo che muove tutto, altro che muovere le stelle, i pianeti e i satelliti.
Sono schifata dal fatto che Paolo & Co. vanno a vendere fumo. Fumo che inebria ma che non è fumo pakistano.
Lui “riorganizzava” le falegnamerie facendo acquistare macchinari (prendendosi lauta provvigione dal produttore), rivoluzionando i cicli produttivi, spostando risorse, ecc. ecc.
Lui faceva una cosa che l’imprenditore sapeva fare ma che non aveva voglia di fare.
Ne ha sistemate molte, ne ha distrutte parecchie ma senza fallire mai. Son gli altri che sbagliano e che non seguono le mie direttive era la sua risposta pronta di fronte alla vera verità che la sua non era stata proprio la trovata del secolo o la scoperta più entusiasmante. Ma ne è sempre uscito a testa alta e coi suoi soldi in tasca.
Oggi quelli che spopolano sono i consulenti per l’internazionalizzazione. SPOPOLANO. Tutti export manager. Tutti pronti a portare le aziendine all’estero per dare un po’ d’aria fresca da respirare. Tutti venditori di sogni a cui aggrapparsi.
Se da una parte sognare è rimasta l’unica cosa non tassata, dall’altra è schifosamente inumano andare a promettere cose irragiungibili.
A quel punto meglio vendere aspirapolveri, creme e cremette.
Internazionalizzarsi per un’azienda è una necessità, un bisogno, una richiesta di aiuto, un’ancora di salvataggio. Ma non tutti sono pronti a farlo. Non tutti hanno la capacità fisica e mentale per farlo. Non tutti devono farlo.
Ci vuole onestà intellettuale e quella specie di amore per il prossimo per dire di no. No caro imprenditore, non sei pronto per un processo di internazionalizzazione. No caro imprenditore, il tuo prodotto non è destinato a mercati extra parrocchia o frazione. No caro imprenditore, correresti più rischi che vantaggi. E invece cosa sta succedendo ai Grandi Consulenti ?
Quelli organizzati, quelli spacciati per consulenti ma di base dipendenti di grandi società di consulenza protetti da un nome o da una bandiera sapendo come gira la situazione, sapendo di essere parte del problema e non della soluzione, stanno andando a bussare alle porte delle varie CCIAA e delle varie associazioni di categoria per vendere la loro merda.
Un processo di internazionalizzazione è una cosa intima, personalizzata, tagliata e costruita su misura per ogni singola azienda, in base a ogni singola realtà. Non puoi venderla come un sottovaso o una coperta.
Mi rompe che associazioni e conf varie prestino il fianco per far entrare sul palco questi mercanti di sogni. Mi rompe perchè dimenticano che lo scopo primario della loro esistenza è il bene degli associati non prestarsi a fornitori di nominativi.
Mi rompe sapere che chi si rompe le balle a cercarsi il cliente, a seguirlo come se fosse parte dell’azienda venga sottovalutato a favore dei Grandi Consulenti.
Perchè quando un cliente diventa un numero, una possibilità di farci soldi non lo segui più veramente come dovrebbe essere fatto. E sputtani quelli che fanno consulenza fatta per bene. E diventi un altro Paolo.
9 Novembre 2012