A mente freddaLa tragedia di un suicidio e il rischio dello sciacallaggio

Ricordo ancora vividamente la notizia del suicidio di Norman Zarcone, avvenuto ormai un paio d'anni fa. Era un dottorando di ricerca, come ero stato io fino a tre anni prima; anche per lui era nece...

Ricordo ancora vividamente la notizia del suicidio di Norman Zarcone, avvenuto ormai un paio d’anni fa. Era un dottorando di ricerca, come ero stato io fino a tre anni prima; anche per lui era necessario trovare una prima sistemazione post-dottorale di fronte alle strettoie di possibilità sempre più risicate, come era successo a me alla scadenza del triennio curricolare, quando sono rimasto “scoperto” per quasi nove mesi e ho fatto tirocini e collaborazioni saltuarie con una casa editrice; viveva quella sensazione di disagio che anch’io conoscevo bene, e che non si placa certo al conseguimento della prima borsa di ricerca, perché non è data tanto dal non avere un posto, quanto dalla consapevolezza che il suo mantenimento non potrà, per legge, dipendere dalle capacità dimostrate, visto che a un certo punto la sede in cui si lavora, pur avendo bisogno e possibilità finanziarie per farlo, non potrà più procedere a rinnovi. Leggendo quanto accaduto, allora, pensavo che forse, chissà, anche le nubi che ogni tanto oscuravano la mia mente nei momenti di sconforto sarebbero potute essere più nere, se fossi stato più solo, se non avessi avuto alle spalle una relativa sicurezza economica per la quale non avevo meriti, se alle condizioni di studio e di lavoro si fosse unito d’improvviso qualche altro intoppo inaspettato, se fossi stato colto alla sprovvista da un’angoscia più grande di me che in fondo, vista la situazione in cui mi ero cacciato scegliendo di fare questo mestiere, non sarebbe stata immotivata.

Ma proprio perché, almeno per un momento, mi sono sentito così prossimo a tanti, troppi aspetti della vita di quel ragazzo, mi sono sforzato di capire che le ragioni di una scelta del genere non possono essere semplificate al punto di trovare una spiegazione univoca in una condizione sociale: esse, per definizione, maturano nei meandri di una coscienza individuale per l’incontro e lo scontro di mille situazioni specifiche e sensazioni conosciute solo da chi le prova. Andare più in là, con la razionalizzazione, è impossibile.

Detto questo, io non posso nemmeno permettermi di giudicare il comportamento di chi da questa tragedia è stato intimamente colpito, vivendo un dolore che non posso nemmeno immaginare. Nelle parole del padre Claudio, pronunciate a caldo poco dopo i fatti, io leggo solo il tentativo, assai poco lucido, di razionalizzare ciò che per definizione non ammette spiegazioni, da parte di una persona che non può permettersi di vivere con interrogativi inevitabili. Dire, rispolverando una spiegazione diffusa quanto insoddisfacente di una pratica sociale che può essere riformata solo attraverso una conoscenza ben più puntuale:

i docenti ai quali si era rivolto gli avevano detto chiaramente che non avrebbe avuto un futuro nell’ateneo. E io sono certo che saranno favoriti i soliti raccomandati,

e due righe dopo dire che l’aberrata pratica della raccomandazione non sarebbe stata tanto male, se avesse favorito chi voleva lui:

ho cercato aiuto dai miei amici parlamentari di ex An – riferisce – ma nessuno mi è venuto incontro. Ho trovato solo porte chiuse,

era un discorso chiaramente senza capo né coda, frutto come dicevo di sconforto e scarsa lucidità comprensibili, ma destinato a spegnersi poco dopo, e soprattutto a non essere ripreso da persone il cui comportamento scomposto e irrazionale era assai meno giustificabile che in un padre in lutto.

E invece, la figura di Norman è diventata quasi immediatamente il simbolo di una categoria sociale, quella dei “precari della ricerca”, attraverso l’accoglienza acritica alle suggestioni del padre sulla possibilità che i colpevoli unici del gesto del figlio fossero “lo Stato” e “i baroni”, e soprattutto attraverso la (sicuramente poco impegnativa rispetto alla riflessione compiuta, ma inaccettabile per chi intende farsi pagare per svolgere un’attività intellettuale di alto livello) accettazione di quella retorica per cui due ricercatori della stessa età, con un curriculum simile e con la stessa posizione possono diventare uno una vittima, l’altro un “colluso col potere”. Così, infatti, mi è capitato di scrivere tempo fa:

Prendete questi due giovani medici. Uno è un chirurgo, specializzato a Québec e a Sydney, dove ha anche svolto incarichi direttivi presso la Microsearch Foundation, e ha pubblicato un buon numero di contributi ad elevato impact factor. L’altra è una genetista, ha lavorato per due anni al Beth Israel Deaconess Medical Center di Harvard, producendo ricerca di alto livello e universalmente apprezzata e gestisce i fondi di un progetto di ricerca della Fondazione Hugef. Lui a 36 anni è diventato professore associato. Anche lei da 3-4 anni ha lo stesso ruolo all’università, e di anni ne ha 37.

Per quanto la differenza dei campi di specializzazione renda i due percorsi difficilmente comparabili, sembra quasi di vedere due carriere non solo brillanti, ma anche in qualche modo parallele. Invece il primo, Marco Lanzetta è stato “scavalcato” più di una volta nei concorsi per diventare professore ordinario, suscitando l’intervento ripetuto della magistratura nell’annullare procedure di valutazione chiaramente inadeguate, ma soprattutto suscitando l’interesse di Gian Antonio Stella, che in un articolo del Corriere ci ha presentato il suo caso come quello della vittima di un’ingiustizia, bloccato in una posizione accademica e ospedaliera di scarso rilievo per nessun altro motivo se non quello di non conoscere le persone giuste. Questa posizione accademica, invece, diventa eccessivamente solida e remunerativa, e quindi “rubata”, nel caso della genetista, che come tutti avrete capito è Silvia Deaglio […], figlia del ministro Elsa Fornero, persona a cui pochi si interessavano prima che si insediasse al sempre scomodo dicastero del Lavoro, ma evidentemente da anni così potente da costringere Harvard a cedere alle sue raccomandazioni.

Ecco cosa succede quando il pettegolezzo concorsuale diventa quasi un genere letterario, un discorso retorico buono per tutte le stagioni con qualche aggiustamento di comodo, in modo da non essere mai falsificabile: chi perde i concorsi è sempre meritevole, chi li vince sempre raccomandato (adesso che i posti a disposizione sono diminuiti è in voga la variante dei “figli di”), anche se spesso, in concorsi diversi, si è trattato della stessa persona, improvvisamente passata dallo status di genio incompreso a quello di colluso col potere. E allo stesso modo, quando un concorso viene annullato dal TAR perché magari mancava un timbro o si è perso l’originale di un documento di cui si ha la fotocopia, arriva un giudice a far giustizia, naturalmente spalleggiato dai periti del Tribunale, che hanno riconosciuto la magagna. Solo che i periti, dovendo essere persone competenti, sono generalmente professori ordinari dello stesso SSD del concorso, quindi avrebbero anche potuto essere, in quel concorso commissari; peggio, sicuramente saranno stati commissari in qualche altra procedura, svolta con gli stessi criteri, dove naturalmente chi ha vinto non lo meritava, e anche qui, miracolosamente, le stesse persone hanno sempre ragione (e non agiscono mai sulla base di secondi fini) quando sono chiamati dal Tribunale a esprimersi su qualcun altro, sempre torto quando sono in commissione.

Ora, a seguito della nota affermazione del ministro del lavoro Elsa Fornero sull’opportunità per i giovani di non essere “choosy” nel mercato del lavoro, Claudio Zarcone è tornato allo scoperto, querelandola come autrice di parole offensive nei confronti del figlio. Riguardo a lui, mi sento solo di dire che evidentemente ha ancora bisogno di elaborare un lutto evidentemente troppo grande per le sue spalle, e come prima sospendo il giudizio. Temo però che di fronte alle reazioni piuttosto inspiegabili di molti giovani di fronte alle parole del ministro ci sia il rischio che la figura di Norman diventi, di nuovo, simbolo di ciò che non lo riguarda. Per questo provo a mettere in fila alcune riflessioni:

  • Nell’intervento “incriminato”, la Fornero fa alcune considerazioni di buon senso. In pratica, dice che il mercato del lavoro attuale è ancora molto rigido e che, anche con riforme più incisive di quella portata avanti finora, difficilmente i miglioramenti si faranno sentire nel breve periodo, a causa delle complicazioni pregresse. Di conseguenza, attualmente la scelta più razionale per chi entra nel mercato è quella di inserirsi subito, anche con occupazioni al di sotto delle aspettative, e una volta entrato valutare. Il termine “choosy”, che deriva dal verbo “choose”, “scegliere”, e che quindi ha una derivazione piuttosto diversa e più neutre dello “schizzinoso” con cui affrettatamente si traduce, potrebbe trovare un buon sinonimo in “selettivo”, soprattutto se si tiene conto che tra le altre cose è anche un termine usato piuttosto spesso nei modelli di allocazione dei lavoratori sul mercato. Un atteggiamento selettivo dal lato dell’offerta del proprio lavoro si può tenere, si dice di solito, quando le condizioni lo consentono, è razionalmente prevedibile che si possano sviluppare diverse alternative tra cui selezionare dal lato della domanda. Dal momento che ciò è strutturalmente impossibile per i nuovi entrati, almeno nel breve periodo date le condizioni del mercato del lavoro italiano, le conseguenze sono logicamente deducibili.
  • Nella loro reazione, i giovani che si sono sentiti punti sul vivo dalla considerazione del ministro hanno messo in evidenza la loro disponibilità ad accettare posizioni lavorative disagiate o non adeguate al loro percorso di formazione, evidentemente ritenendo quel comportamento il più adeguato alla difficile situazione di sistema. In sostanza, le hanno dato ragione.
  • Tra i giovani che hanno accettato questo stato di cose senza fare tante storie, ma con l’atteggiamento costruttivo di chi intendeva con tali comportamenti “imparare l’etica del lavoro”, c’era anche un ragazzo che “per guadagnare 25 euro al giorno” mentre studiava per il dottorato senza borsa di studio (condizione intollerabile, che trova le sue origini profonde essenzialmente nel modo in cui il dottorato viene concepito in Italia dalle istituzioni che lo organizzano) “faceva ogni tanto il bagnino in un circolo nautico”. Era proprio Norman, il quale, studioso esperto di pratiche linguistiche e di comunicazione, non avrebbe mai potuto sentirsi ferito da quanto sostenuto dal ministro, ma avrebbe al limite potuto vedere in quell’intervento un caso di scarsa calibratura del messaggio sul pubblico “generalista” a cui sarebbe stato dato in pasto.

In conclusione, e spero senza suscitare polemiche che possano turbare ulteriormente il suo ricordo, l’unica cosa che mi sento di scrivere è un sommesso invito a lasciare in pace la memoria di un ragazzo, non trascinandola in polemiche che non gli appartegono e lasciando prese di posizione e gesti inconsulti a un padre distrutto, ché da parte di altri essi sarebbero ingiustificabili e incomprensibili.