In questi giorni, percorrendo alla lentezza di 40 chilometri orari il Ponte della Libertà per recarmi quotidianamente al Salone europeo della Cultura in Laguna, la mia mente ha recuperato una rivoluzionaria proposta lanciata a dicembre 2010 dall’architetto vicentino Flavio Albanese, opinionista su Nordesteuropa.it e al tempo direttore di Domus: fare spazio a nuove costruzioni per ripopolare il centro di Venezia di giovani, traslocando sulla terraferma i parcheggi del Tronchetto e piazzale Roma, riconfigurando la mobilità e… abbattendo il Ponte della Libertà (o trasformandolo in ciclabile).
Andiamo con ordine.
Ogni giorno il suolo incerto di Venezia è calpestato da oltre 196mila persone. Di queste, meno di 60mila abitano in città. Il resto sono transiti: non solo turisti ed escursionisti, ma anche –soprattutto – pendolari: studenti e lavoratori. «L’enorme dose quotidiana di individui che transitano a Venezia senza abitarla, che la consumano senza viverla, ha una logica: è la conseguenza della rinuncia all’eccezionalità urbana, all’insularità originaria, della scelta di connettersi con il mondo trasformandosi nel simbolo dell’industria turistica globale» scriveva l’architetto su Nordesteuropa.it.
Quello che Albanese lanciò al tempo fu un sogno-esperimento-laboratorio per una Venezia contemporanea e non una semplice cartolina turistica invasa da orde di visitatori. Così, dopo vari studi e workshop, Albanese individuò un punto focale al quale è riconducibile la trasformazione dell’attuale Venezia. Questo punctum è il Ponte della Libertà.
«Il Ponte, come dice Régis Debray, ha rappresentato una radicale «rottura semiotica». Questa rottura, tuttavia non ha condotto alla modernizzazione della città, ma alla sua iper-simbolizzazione: Venezia come un elegante e gigantesco parco tematico culturale e terminal turistico internazionale» spiegava Albanese. «Il Tronchetto, la stazione ferroviaria di Santa Lucia, la desolata piazza d’armi di Piazzale Roma, il bacino della Stazione Marittima. Queste aree si presentano oggi come luoghi acefali, puramente funzionali, cul-de-sac veicolari estranei al corpus urbano della città. Cosa succederebbe se in queste aree anziché transitare visitatori e/o pendolari abitassero persone? Cosa accadrebbe se questa porzione di Venezia si facesse carico di ricollocare i germi di una contaminazione urbana contemporanea?» chiedeva l’architetto.
L’ipotesi lanciata fu di arrestare come un tempo i transiti sul bordo della terraferma. Non più auto a Tronchetto, non più treni a Santa Lucia, non più navi da crociera lungo il Canal Grande. E riconvertire le aree infrastrutturali in nuovi incubatori abitativi, in residenze per quelle categorie espulse dal centro storico di Venezia: giovani famiglie, studenti, pendolari. L’ipotesi fu quella di allocare – a cifre fuori mercato, come accade oggi a Berlino, a Barcellona ieri e Londra negli anni ’70 – appartamenti a una generazione di persone motivate, intraprendenti, con buone idee in testa, per invertire l’emorragia.
Follia? Forse. Ma il sogno ebbe anche dei dati (uno studio di fattibilità condotto da Emanuele Teti dell’Università Bocconi di Milano) e argomentate risposte come quella del professore di Economia della Cultura Pier Luigi Sacco: «Si dirà: è troppo complicato. Risponderò con un’altra domanda – precisava il docente -: è più complicato questo, oppure decidere di costruire, con una tecnologia rudimentale rispetto a quella oggi disponibile, un’intera, meravigliosa città nel mezzo di una laguna, in mare aperto, issando letteralmente gli edifici su un sistema di pali infissi nel limo? Giudicate voi. E giudicate se è giusto che un’opera umana di questa portata, di questa lungimiranza, di questa straordinaria potenza immaginativa debba finire così, a far legna per il camino perché oggi l’unica cosa che sappiamo fare per dare forma al nostro futuro è governare lo status quo attraverso una sequenza infinita di mediocri, pavidi compromessi».
La polemica in quei giorni animò i quotidiani locali. Poi fu dimenticata e regalata al ricordo dei titoli espansi nelle prime pagine.
Perché rilanciare oggi la questione?
Perché la Venezia vissuta in questi giorni ai Magazzini Ligabue (fermata San Basilio) non è stata la Venezia turistica e non ha avuto nulla a che fare con San Marco. E’ stata la dimostrazione che la città non ha bisogno solo di turismo ma di essere abitata – in permanenza – da una comunità di professionisti creativi che produce valore economico e sociale.
Qualcuno in questi giorni ha detto: mi sembrava di essere ad Anversa. Magari domani qualcuno, ad Anversa, potrebbe dire: mi sembra di stare a Venezia.
Giudicate voi.