Lo dico subito: non penso che quello sulla fuga di documenti riservati della Santa Sede sia stato un “processo farsa”. Un dibattimento è stato celebrato, la stampa ha potuto assistere e raccontare liberamente la vicenda giudiziaria, l’opinione pubblica è stata informata. Cose impensabili per il Vaticano solo pochi anni fa. Il caso Estermann – l’omicidio-suicidio avvenuto nel 1998 in cui persero la vita il comandante della Guardia svizzera Alois Estermann, sua moglie Gladys Meza Romero e la giovane guardia Cedric Tornay – si concluse con una corposa quanto fumosa perizia che spiegava poco o nulla. Sulla scomparsa di Emanuela Orlandi non si sa praticamente niente a distanza di quasi un trentennio. Tradimenti e vicende di spionaggio hanno attraversato da sempre lo Stato pontificio – il Vaticano di Wojtyla pullulava notoriamente di agenti dei due blocchi contrapposti nella Guerra fredda – ma sono state raccontate solo decenni dopo da cronisti arguti e ricostruzioni giornalistiche ex post. Questa volta qualcosa è cambiato. Lo squarcio aperto dal bestseller di Gianluigi Nuzzi Sua Santità non si è richiuso. Per una super-potenza che propaga urbi et orbi il proprio messaggio, è già un passo avanti sulla strada di quella che gli anglosassoni chiamano accountability. Un passo impresso da un Pontefice, Benedetto XVI, che anche su altre vicende – la pedofilia dei preti, le finanze vaticane, le indagini sugli immobili di Propaganda fide – ha voluto introdurre in Vaticano una cultura di maggiore trasparenza.
Ciò premesso, il processo Vatileaks si è concluso – con l’incarcerazione del maggiordomo del Papa Paolo Gabriele, condannato a 18 anni per furto delle carte riservate, e la condanna a quattro mesi, scontata a due e sospesa per le attenuanti generiche, di Claudio Sciarpelletti, tecnico informatico della segreteria di Stato reo di favoreggiamento, ossia di avere intralciato le indagini degli inquirenti vaticani – tra molte incongruenze, questioni aperte, zone opache. Che ora, a bocce ferme e proprio in nome della trasparenza, è il momento di provare ad elencare.
Primo. Paolo Gabriele e, secondariamente, Claudio Sciarpelletti sarebbero gli unici colpevoli. “Le varie congetture circa l’esistenza di complotti o il coinvolgimento di più persone si sono rivelate, alla luce della sentenza, infondate”, sostiene la segreteria di Stato. Perché, allora, lo stesso Gabriele aveva parlato, in un’intervista a volto coperto concessa a Nuzzi per la trasmissione Gli intoccabili di “una ventina” di persone impegnate a fare uscire i documenti? Come faceva, ad esempio, il maggiordomo del Papa, da solo e senza parlare le lingue straniere, a capire l’importanza di un appunto in tedesco del segretario personale di Benedetto XVI, mons. Georg Gaenswein – uno dei documenti più rilevanti contenuti nel libro di Nuzzi – su un colloquio top secret avuto con Rafaele Moreno, assistente personale del fondatore dei Legionari di Cristo, quel Marcial Maciel pedofilo e tossicomane su cui Ratzinger ha deciso di indagare nonostante le resistenze di Curia? Ancora: il dispositivo della sentenza spiega che Paolo Gabriele è stato condannato “per aver egli operato, con abuso della fiducia derivante dalle relazioni di ufficio connesse alla sua prestazione d’opera, la sottrazione di cose che in ragione di tali relazioni erano lasciate od esposte alla fede dello stesso”. Furto, insomma. Eppure a fine maggio la stessa Santa Sede annunciava l’intenzione di perseguire “gli attori (al plurale, ndr.) del furto, della ricettazione e della divulgazione di notizie segrete, nonché dell’uso anche commerciale di documenti privati, illegittimamente appresi e detenuti, rispondano dei loro atti davanti alla giustizia”. Chi è il responsabile della “ricettazione”, della “divulgazione” e “dell’uso commerciale” delle notizie segrete? Secondo. Nel corso del processo sono stati fatti altri nomi: quelli dei cardinali Sardi, Comastri, Cottier e Dias, quello del vescovo di Carpi Cavina e – nel processo-stralcio a Sciarpelletti – quello dell’ex vice-direttore della sala stampa vaticana, mons. Piero Pennacchini. “E’ inammissibile che venga fatto il suo nome”, ha protestato in aula il legale di Sciarpelletti, l’avvocato Claudio Benedetti, “io mi impegno a scrivere memorie difensive per non far venire fuori i nomi, e voi fate questo nome?”. La domanda getta un’ombra sul processo. Per quale scopo sono stati fatti questi nomi? Character assasination? E perché sono stati fatti solo alcuni nomi e non tutti quelli coperti da omissis nella requisitoria dell’accusa e nella sentenza di rinvio a giudizio? E, soprattutto, che ruolo hanno avuto le persone menzionate, dato che il dibattimento non lo ha approfondito? I cardinali citati avrebbero “suggestionato” Paolo Gabriele, ma in che modo? E perché? Perché, infine, è stato escluso dalle prove dibattimentali – nonostante la richiesta dell’accusa – un bene informato articolo del quotidiano tedesco Die Welt che indicava nella cerchia di Joseph Ratzinger all’epoca in cui era cardinale alcuni dei suggeritori occulti di Paolo Gabriele? Terzo. L’intero dibattimento è ruotato attorno al libro di Gianluigi Nuzzi Sua Santità. Lo stesso Paolo Gabriele ha ammesso di aver contattato il giornalista personalmente e senza intermediari. Eppure tra i primi leaks ci sono le lettere riservate con le quali l’allora segretario del Governatorato vaticano, mons. Carlo Maria Viganò, denunciava la “corruzione” relativa agli appalti in Vaticano e contestava la decisione del cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone di trasferirlo come nunzio apostolico negli Stati Uniti; gli appunti che mostravano una divergenza tra il cardinale Attilio Nicora ed Ettore Gotti Tedeschi sulla trasparenza finanziaria dello Ior; nonché una delirante ricostruzione di un viaggio in Cina durante il quale il cardinale di Palermo Paolo Romeo prospettava il rischio di un attentato al Papa. Tutti documenti pubblicati da Marco Lillo sul Fatto quotidiano. Chi glieli ha dati? Perché il processo non ha affrontato la questione?
Quarto. Nel corso del processo l’ex assistente di Camera di Benedetto XVI ha confessato di aver fatto fotocopie dei documenti consegnati a Nuzzi e di averle date al suo “padre spirituale”, don Giovanni Luzi. Il sacerdote, ascoltato dagli inquirenti, ha dichiarato di averli conservati per qualche giorno per poi bruciarli in quanto, soprattutto, “sapevo che… erano il frutto di una attività non legittima e non onesta e temevo che se ne potesse fare uso altrettanto non legittimo e onesto”. Perché questo sacerdote non è stato incriminato di favoreggiamento, o quantomeno non è stato ascoltato come teste al processo? Quinto. La sentenza di rinvio a giudizio spiega che a casa di Paolo Gabriele sono stati rinvenuti, oltre alle carte incriminate, un assegno di 100mila euro intestato al Papa, una “pepita presunta d’oro” indirizzata a Benedetto XVI e una cinquecentina dell’Eneide destinata al Papa, traduzione di Annibal Caro stampata a Venezia nel 1581. Sembrava la prova che il maggiordomo agisse per profitto, era la riprova del furto. Poi, dopo le contraddittorie testimonianze dei gendarmi che avevano svolto la perquisizione, i giudici, nella motivazione della sentenza, hanno espunto queste prove di reato perché “rimangono non del tutto chiare le circostanze del loro rinvenimento”. Perché non chiarirlo? E perché, ancora, il materiale informatico rinvenuto a casa di Paolo Gabriele che – lo avevano stabilito i giudici vaticani – sarebbe dovuto essere analizzato nel corso del processo-stralcio a Claudio Sciarpelletti, non è stato invece neppure menzionato? Sesto. Se il maggiordomo del Papa è stato condannato per “furto”, perché, successivamente, la segreteria di Stato ha precisato che, con il suo operato, “è stata recata un’offesa personale al Santo Padre; si è violato il diritto alla riservatezza di molte persone che a Lui si erano rivolte in ragione del proprio ufficio; si è creato pregiudizio alla Santa Sede e a diverse sue istituzioni; si è posto ostacolo alle comunicazioni tra i Vescovi del mondo e la Santa Sede e causato scandalo alla comunità dei fedeli”? Qual è, insomma, il reato realmente contestato? Il “semplice” furto, o anche la diffamazione e la rivelazione di segreti di Stato?
Settimo. Paolo Gabriele – lo ha scritto nella perizia psichiatrica ammessa a dibattimento il professor Roberto Tatarelli – “si caratterizza per un’intelligenza semplice in una personalità fragile con derive paranoide a copertura di una profonda insicurezza personale e di un bisogno irrisolto di godere della considerazione e dell’affetto degli altri. Accanto ad elementi di sospettosità interpersonale sono presenti condotte ossessive del pensiero e dell’azione (meticolosità, perseverazione), sentimento di colpa e senso di grandiosità, connessi ad un desiderio di agire a favore di un personale ideale di giustizia. La necessità di ricevere affetto può esporre il soggetto a manipolazioni da parte degli altri ritenuti suoi amici ed alleati”. Perché una personalità del genere è stata lasciata accanto al sommo Pontefice per sei anni? Non se n’era accorto nessuno che c’erano dei rischi? E, inoltre, nessuno si era allarmato del fatto che faceva continue fotocopie nel suo ufficio, condiviso con i due segretari personali del Papa, dato che – lo ha raccontato lo stesso Paolo Gabriele – lo faceva “in presenza di altri”? Come era riuscito a godere della fiducia del Papa e della sua cerchia più ristretta? E perché il tribunale vaticano non ha voluto approfondire un’altra dichiarazione inquietante resa dal maggiordomo in aula, che, cioè, parlando con il Papa aveva ricavato l’impressione che egli non fosse sufficientemente informato su alcune questioni sulle quali avrebbe dovuto esserlo, tanto da sembrare – sono sempre parole di Paolo Gabriele – “manipolabile”? Ottavo. Nel corso del processo-bis a carico di Claudio Sciarpelletti sono emersi dettagli rilevanti sull’atmosfera che si respira in Vaticano ma non sono stati approfonditi. Nel suo studio è stata rinvenuta una busta nella quale si trovava, tra l’altro, un documento che attaccava la gendarmeria – intitolato Napoleone in Vaticano – e costituisce uno dei capitoli del libro di Gianluigi Nuzzi. La perquisizione sarebbe nata dalla soffiata di una “informativa anonima” originata – lo ha rivelato l’avvocato Claudio Benedetti – in segreteria di Stato, un documento che metteva in relazione Paolo Gabriele e Claudio Sciarpelletti. In segreteria di Stato circolano informative anonime? Il superiore del tecnico informatico, mons. Carlo Maria Polvani, inoltre, ha raccontato che mentre in passato “Claudio” aveva nei suoi confronti un comportamento cordiale, da “giugno-luglio” (ossia dopo l’arresto di una notte avvenuto il 25 maggio) egli era divenuto cupo e scostante. Quando Polvani andò a parlargli, Sciarpelletti gli disse, senza altro spiegare: “Tu mi dovrai perdonare, lo faccio per i miei figli e per la mia famiglia”. “Lì per lì non capii che intendeva – ha detto Polvani – lo capii dopo il 13 agosto”. Solo quel giorno il Vaticano ha pubblicato la sentenza di rinvio a giudizio di Sciarpelletti, rivelando che l’informatico era stato arrestato a maggio e, dopo aver detto che la busta gli era stata data da Paolo Gabriele, si era smentito affermando che la busta gli era stata invece data proprio da Polvani. Sciarpelletti, dunque, accusa Polvani alle sue spalle. Polvani che – va ricordato – è nipote di quel mons. Carlo Maria Viganò all’origine del caso Vatileaks; e che un pamphlet uscito in Francia sulla rivista Homme Nouveau (Y a-t-il une opposizione romaine au Pape?) indica, assieme a suo zio, tra i promotori di una fronda contraria a Ratzinger e Bertone. Ma perché Sciarpelletti lo ha fatto “per i suoi figli e per la sua famiglia”? Qualcuno lo ha minacciato – e di cosa? E perché un ufficiale di rango della segreteria di Stato vaticana non sapeva apparentemente nulla del fatto che un suo sottoposto era stato arrestato mesi prima in Vaticano? Nono. Paolo Gabriele – lo facevano pensare tanto gli insistenti rumors vaticani quanto alcune dichiarazioni ufficiali – doveva essere graziato in tempi brevi dal Papa. Se mai fosse stato incarcerato, lo sarebbe stato in un penitenziario italiano. E comunque non avrebbe perso il lavoro, tanto che il promotore di giustizia (pm) Nicola Picardi ha ipotizzato per lui una interdizione dai pubblici uffici perpetua ma parziale, in modo da consentirgli, cioè, un impiego in Vaticano lontano, però, dalle stanze dei bottoni. Così a inizio ottobre. Poi cambia tutto. La grazia non arriva, il maggiordomo viene incarcerato non già in Italia ma in una cella della gendarmeria e il Vaticano avvia la pratica per il licenziamento da ogni impiego di Curia. Cosa è cambiato nell’ultimo miglio della sua vicenda giudiziaria? Decimo. Perché, se Vatileaks è solo la storia di un maggiordomo picchiatello e fedifrago, il Papa, dopo il suo arresto, ha voluto incontrare diversi big del collegio cardinalizio, che – lo ha spiegato il 23 giugno il Vaticano – “possono utilmente scambiare con lui considerazioni e suggerimenti per contribuire a ristabilire il desiderato clima di serenità e di fiducia nei confronti del servizio della Curia romana”? Non c’è forse, oltre ad un reato materiale di furto, anche un sottostante problema di governance della Curia romana? E’ stato affrontato – e come? Quanto alle indagini, oltre a quelle svolte da gendarmeria e magistratura vaticana, il Papa ha incaricato una commissione cardinalizia ad hoc, composta dai cardinali Julian Herranz, Josef Tomko e Salvatore De Giorgi, di svolgere una parallela inchiesta, senza limiti di mandato né di giurisdizione, capace di interrogare, discretamente, dall’ultimo usciere al più potente cardinale di Curia. I risultati sono stati consegnati al Papa e – nonostante la richiesta della difesa – non sono stati incorporati nel processo. Perché? Esiste su Vatileaks una verità diversa da quella giudiziaria?