Un altro NordestL’infarto della Cultura

E’ uscita in libreria la versione italiana di Kulturinfarkt, il libro scandalo scritto da quattro studiosi tedeschi: Dieter Haselbach, Armin Klein, Pius Knüsel e Stephan Opitz. E sarà proprio la te...

E’ uscita in libreria la versione italiana di Kulturinfarkt, il libro scandalo scritto da quattro studiosi tedeschi: Dieter Haselbach, Armin Klein, Pius Knüsel e Stephan Opitz. E sarà proprio la tesi contenuta nel volume – oggi in prima pagina su Repubblica – ad aprire la prima edizione del Salone europeo della Cultura il prossimo venerdì a Venezia. Presente Haselbach. Al suo fianco Paolo Baratta, presidente della Biennale e Cesare De Michelis della Marsilio editori che edita la versione italiana del volume.

Ma qual è la tesi del libro?

Per onestà intellettuale riporto alcuni stralci dell’intervista pubblicata nel numero di novembre di Nordesteuropa.it (www.nordesteuropa.it) a firma Denny Cobianchi.

«Il libro nasce come analisi in forma volutamente polemica della situazione in cui oggi versa la cultura – spiega Haselbach – . L’idea generale emersa nel 2008 da un dibattito tra i maggiori esponenti del settore culturale, riuniti per confrontarsi sull’impatto della crisi economica, fu la necessità di ricevere maggiori sovvenzioni. Una visione che noi non condividevamo, poiché ritenevamo che negli ultimi decenni il settore culturale fosse cresciuto quantitativamente e in termini di finanziamenti, ma non in creatività e innovazione».

La cultura sembra infatti giunta a un punto di stallo.

«Non tanto la cultura in sé quanto quella finanziata pubblicamente. Il famoso programma «Kultur für alle» (Cultura per tutti), inteso da alcuni come un attacco all’esclusività delle istituzioni culturali tradizionali negli anni ‘70 e ‘80, è stato completamente assorbito nella corsa alle sovvenzioni pubbliche. A differenza di altre aree di finanziamento pubblico, nel settore culturale gli organi politici hanno trascurato la necessità di definire gli obiettivi delle loro spese e si è creato così un mondo indipendente dalle regole del mercato in cui l’aumento della produzione culturale è di per sé sufficiente a giustificare l’esistenza di un numero di realtà fin troppo elevato».

Qual è allora il giusto mezzo?
«Più che discutere di tagli alla cultura, riteniamo che i fondi disponibili per le sovvenzioni al settore dovrebbero essere redistribuiti in base alle esigenze del pubblico e della maggioranza della nostra società: esigenze che divergono nettamente dagli obiettivi che le istituzioni culturali sostengono. Merito e qualità non necessariamente sono obiettivi assoluti. Piuttosto, se tagli e cambiamenti strutturali nel settore culturale fossero necessari, le decisioni andrebbero prese a livello locale partendo comunque dall’idea che questo sistema è intaccato da posizioni di interesse che, credendo di rappresentare al meglio le esigenze collettive, comportano invece costi crescenti, limitata partecipazione del pubblico e scarso impatto sociale».

Il ruolo degli enti privati?
«Premesso che la maggior parte delle offerte culturali si verifica sul mercato e non nelle istituzioni sovvenzionate, è necessario definire un problema di fondo: quando vi è scarsità di risorse pubbliche si rivolge spesso lo sguardo alle sponsorizzazioni commerciali, le quali però, puntando a un ritorno in termini di visibilità e quote di mercato, tendono a promuovere istituzioni già note ed eventi di sicuro impatto sociale. Il paradosso sta però nel fatto che solo quelli che hanno già ricevuto finanziamenti pubblici rientrano in queste categorie. I sussidi pubblici, in sostanza, finiscono per influenzare le scelte di mercato delle imprese private. La politica culturale futura dovrà tener conto di ciò promuovendo una moltitudine di iniziative private che creino un settore culturale competitivo nonostante la presenza di enti sovvenzionati e dunque tendenzialmente dominanti».

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