In contemporanea con le primarie del centro-sinistra in Italia si sono svolte le elezioni nella più autonomista delle regioni spagnole, la Catalogna. E se pure il presidente uscente, Arthur Mas, non ha raggiunto come sperava la maggioranza assoluta, tuttavia l’indubbio successo dei partiti indipendentisti (di sinistra) rende più attuale e drammatica, nel pieno della crisi economica, la spinta nazionalista e l’idea della secessione da Madrid, in vista di un possibile referendum sul distacco dalla Spagna (che lo stesso partito moderato di Mas, Convergenzia e Uniò) ha già in animo di indire, probabilmente sul modello di quello già stabilito per la Scozia nel non lontano 2014.
La pulsione catalana a dividere le sue sorti dall’intera Spagna non è soltanto un caso anomalo e circoscritto. Semmai diventa la punta avanzata di un malessere generalizzato in tante aree dei Paesi europei (non solo la parte fiamminga del Belgio ma addirittura in regioni della centralista Francia, oltre alle inquietudini in diverse nazioni dell’Est già inserite nella comunità a 27) che può espandersi come un facile contagio e rendere sempre più complicato il tragitto futuro dell’Unione.
Perché, nel pieno di una crisi economico-finanziaria che peserà a lungo sugli assetti continentali, sarà con questi tormenti diffusi e i relativi rischi di frammentazione che dovranno fare da subito i conti le “leadership” europee, sia quelle di antica esperienza che quelle più nuove che si affacceranno tra breve alla guida dei rispettivi governi. Come i futuri governanti italiani, magari appena incoronati dalle primarie, a cominciare proprio dal centro-sinistra.
E stupisce come, nell’abituale provincialismo mediatico, la coincidenza del voto di domenica non abbia aperto un minimo di attenzione e di lettura in prospettiva. Più o meno, infatti, le primarie del centro-sinistra hanno certificato i rapporti di forza tra i candidati che i sondaggi avevano già da tempo lasciato intravedere. E anche il prossimo ballottaggio del 2 dicembre tra Bersani e Renzi non sembra in grado, a meno di improbabilissime sorprese, di modificare un percorso che appare già scritto.
Con buona pace dell’entusiasmo e della partecipazione di milioni di elettori e delle migliaia di volontari che si sono spesi con generosità per restituire dignità e passione alla politica. La nobilissima prova di democrazia partecipata (con un afflusso imponente) ha infatti confermato assetti consolidati da tempo: Vendola ha presidiato con efficacia la sua area ristretta di sinistra radicale, l’apparato del partito e delle sue vaste e ramificate “nomenklature” ha trascinato al primo posto (ma non alla vittoria decisiva) il suo placido segretario. E lo stesso Renzi si è rivelato molto meno “corpo estraneo” al popolo della sinistra di quanto lo si sia dipinto in tutti questi mesi. Il “profumo di nuovo” dell’impertinente sindaco di Firenze, infatti, si è dimostrato seduttivo verso un elettorato di opinione in gran parte già orientato al centrosinistra. A meno che si voglia sostenere che la sua robusta prevalenza nelle roccheforti tradizionali delle “regioni rosse” sia stata provocata (e soltanto lì) dall’accorrere truffaldino ai seggi delle armate berlusconiane sotto mentite spoglie.
Il rito delle primarie è comunque servito a motivare e a rivitalizzare i vincitori annunciati delle prossime elezioni politiche, stante oltretutto il marasma dominante nell’altro campo. Ma forse la sapienza popolare dei tanti elettori riavvicinatisi alla politica segnala che anche l’ultimo duello sarà per la conquista alla candidatura da “vice-premier”. Perché tutto congiura per una continuità sostanziale, in qualsiasi forma, del professor Monti a Palazzo Chigi. Non solo i mercati finanziari, ma tutto l’”establishment” internazionale considera infatti essenziale il suo ruolo nel difficile contesto dei prossimi mesi. Anche per la sue sperimentate capacità di negoziatore autorevole sullo scenario europeo, carico di incognite inedite e potenzialmente laceranti,…Catalogna compresa.