Gli interventi fiscali previsti nel di segno di legge di stabilità vanno assumendo una fisionomia decisamente più condivisibile di quella che, all’inizio del suo iter, era sta prospettata dal Governo.
Niente baratto della sterilizzazione degli aumenti delle due aliquote IVA più elevate con la riduzione di un punto delle due aliquote IRPEF relative agli scaglioni di reddito meno elevati.
Soprattutto, niente interventi limitativi sugli oneri detraibili dall’IRPEF, per di più con efficacia retroattiva già sull’anno 2012 in corso.
Si ritorna ad una logica finalizzata anzitutto al contenimento degli aumenti dell’IVA, scongiurando definitivamente quello dell’aliquota intermedia del 10% e limitando quello dell’aliquota del 21% ad un solo punto percentuale (passerà al 22%), rispetto alle iniziali previsioni di due.
La mancata sterilizzazione a 360 gradi dell’aumento dell’IVA viene compensata con interventi che aumentano già a partire dal 2013 le detrazioni per figli a carico e, a partire dal 2014, vengono aumentate le detrazioni IRAP a favore delle imprese che assumono.
Molto meglio questo assetto di quello che, qualche settimana fa, era stato difeso dal Ministro dell’Economia Vittorio Grilli, con la sorprendente tesi che avrebbe portato benefici al 99% dei contribuenti, secondo i dati che gli erano stati forniti dall’Agenzia delle entrate.
Chiaro comunque che siamo di fronte a colpi di scalpello in un contesto in cui bisognerebbe invece lavorare di machete.
Il PIL del Paese, nel 2012, è ritornato in termini reali sul livello che aveva nel 2001.
Di contro, la spesa pubblica, al netto della variabile (impazzita e ormai quasi incontrollabile) degli interessi passivi, è cresciuta dal 2000 al 2011, in termini reali, di 122 miliardi di euro.
Anche dopo gli apprezzabili, ma non risolutivi interventi di revisione della spesa messi in campo dal Governo monti nel 2012, la proiezione dell’aumento reale della spesa pubblica sul 2014 continua ad attestarsi oltre i 100 miliardi di euro.
In altre parole, se già era vero che nel 2001 il peso dello Stato sull’economia del Paese appesantiva la crescita più di quanto la agevolasse, oggi ci ritroviamo con un Paese che è ancora al livello del 2001 e uno Stato che, nel mentre, si è preso il lusso di crescere in termini reali, a spese del Paese, del 16,27% e si sente già bravo perché, prima di questi interventi, era cresciuto del 20,23%.
E occhio che, se dal 2010 al 2014 la spesa pubblica è stata (troppo poco) ridotta in termini reali, le previsioni del DEF sul 2015 la danno sorprendentemente di nuovo in leggero aumento, a riprova del fatto che una parte rilevante degli interventi sin qui compiuti sul lato dei tagli sono evidentemente congiunturali e non strutturali.
È evidente che così non può funzionare:
In quei 100 miliardi di aumento reale non ancora riassorbito, per riallineare lo Stato al Paese e consentire a quest’ultimo di ripartire, tirandosi dietro lo Stato nella ripartenza, invece che facendosi tirare da esso nel baratro, ve ne sono una parte significativa che non trova la propria giustificazione nelle dinamiche demografiche della popolazione, il cui progressivo invecchiamento implica un maggior costo sociale.
Con 40 miliardi, forse qualcosa meno, si può azzerare l’IRAP sul settore privato e dimezzare l’IRES sulle imprese labour intensive, ossia quelle per le quali la maggior parte del fatturato è “investito” in remunerazioni di dipendenti e collaboratori.
In questo modo, si invertirebbe il trend attuale che penalizza assurdamente, a parità di redditività, proprio le imprese che generano opportunità di lavoro sul territorio e le si porterebbe addirittura a livelli di tassazione più che concorrenziali anche con Paesi europei con una fiscalità assai meno pesante della nostra.
Impossibile però farlo sino a quando si procederà a ragionieristiche revisioni della spesa, invece che a riformatrici revisioni dello Stato.
Per non parlare dei surreali dibattiti su imposte patrimoniali che nel nostro Paese già ci sono e nemmeno pesano poco.
(Twitter@enrico_zanetti)